La prima parte
de “Le tre sorelle” è impostata sui tempi lunghi e po’ monotoni ma necessari per esplorare la psicologia di tutti i personaggi e rappresentare il loro vuoto esistenziale. Solo della seconda parte si capisce che la prima parte aveva un carattere propedeutico, era la tessera necessaria per arrivare alla fine di uno stupendo mosaico. Cechov fa parlare di nulla uomini e donne superficiali, rassegnati e fatalisti, per darci la misura del vuoto crepuscolare di quel microcosmo. Una noia dunque riflessa cui farà da contrappunto, nel secondo atto, l’esplosione dei sentimenti nelle sue varie declinazioni, amori, delusioni, angosce, contraddizioni, ipocrisie, cinismi.
La commedia narra la storia di tre sorelle, Olga, Mascia e Irina che trascinano la loro esistenza in una piccola città di provincia vanno incontro allo stesso destino. Olga è un’insegnante frustrata, Mascia è l’irrequieta moglie di un gretto e ingenuo professore convinto che nulla esista all’infuori della scuola, infine Irina, la più giovane e la più inquieta, è impiegata al telegrafo. C’è anche Andrea il fratello maggiore che soffre il mancato riconoscimento sociale per non essere riuscito ad entrare nel corpo docente dell’Università e che ha sposato Natascia, una donna meschina, arida, avara e autoritaria. La casa è frequentata dalla classe privilegiata dei militari cui non manca una rassegnata predisposizione all’ozio e alla noia. Il barone Tusenbach, alla vigilia delle nozze con Irina, finirà ucciso in duello, il colonnello Versinin di cui Mascia si innamorerà perdutamente, il vecchio medico della guarnigione Cebutinik sopraffatto dai rimpianti e dalla vodka ed altri ancora.
Il racconto è una chiara metafora del decadimento di una società borghese che avendo disperso nell’agiatezza i valori e il senso della vita, non può che sprofondare nelle proprie contraddizioni e nella propria vacuità. E’ lo stesso dramma che sta vivendo la Russia alla vigilia della rivoluzione.
E’ un teatro di dialoghi e lunghi monologhi. Una sorta di autoconfessione, di colloquio con se stessi per superare le barriere dell’incomunicabilità che separano i vari personaggi. C’è però nelle sorelle la consapevolezza del vuoto immanente che le sta schiacciando e allora tentano di ribellarsi gridando la loro volontà di evadere. E’ straziante il grido di Irina: “a Mosca, a Mosca”. La metropoli è in realtà un non luogo. E’ più semplicemente la metafora dell’agognata libertà, del bisogno d’amore e della felicità sempre inseguita ma dissoltasi ogni volta come un sogno. C’è in Cechov lo sforzo di salvare gli uomini dall’insidia mortale delle illusioni e l’accanita ricerca del senso dell’eterno che viene fuori nell’ultimo atto dove, fra strazianti scene di addio, non si sa se quel treno porterà alla morte o all’oblio. La guarnigione parte e tutto ripiomba nella grigia monotonia di giornate sempre uguali. E Cechov mette in bocca a Olga, la sorella più realista “La vita fugge non tornerà più, e noi non andremo mai a Mosca”.
Questa compagnia è composta da bravissimi giovani attori che hanno nell’espressività fisica dei gesti, delle posture e della mimica facciale la loro caratteristica più significativa. Bravi ma di seconda istanza perché il vero artefice del successo è di Claudio Orlandini. Il regista, che, oltre a impostare gli attori, come diceva Paul Claudel a (“jouer non seulement avec la langue et les yeux, mais avec tout le corps, se servir des ressources infinies d’expression que fournit le corps humain”), privilegia il realismo di Cechov e fa emergere l’attualità dei temi dominanti come l’angoscia e la pericolosa deriva dell’illusione.
Tutti gi attori meritano un lungo applauso per la versatilità e le capacità attorali espresse: Cinzia Brogliato, Carola Boschetti, Paola Casella, Michele Clementelli, Luca Chieregato, Davide del Grosso, Federico Gobbi, Chantal Masserey, Leo Mignemi, Marzio Paioni, Claudio Orlandini, Laura Rostiti, Carlo Zerulo.
Molto semplici e funzionali le scene di Anna Bertolotti che fanno da degna cornice all’inazione e specchio di un umanità che ha smarrito il senso della vita. E alla fine il gioco delle luci appese che si spengono (metafora della vita, della speranza, delle illusioni che se ne vanno) moltiplica le emozioni. Molto funzionali le musiche di Gipo Gurrado e le luci di Fausto Bonvini. Merita una menzione anche il trucco curato da Beatrice Cammarata.