Da martedì 3 fino a domenica 8 dicembre quel variegato mosaico che costituisce il cartellone della Pergola di Firenze si arricchisce di un’altra preziosa tessera: “ ‘Na specie de cadavere lunghissimo”, uno spettacolo di breve durata che impegna nelle vesti di interprete ed autore Fabrizio Gifuni.
L’attore romano, assumendo l’arduo compito di dar voce ad alcune delle più appassionate e feroci critiche di Pier Paolo Pasolini, rappresenta quello che fu lo sferzante j’accuse dell’intellettuale friulano nei confronti dell’universo borghese del tempo.
Gifuni si aggira, recitando intensamente alcuni brani sapientemente tratti da “Lettere luterane” e “Scritti corsari”, fra pochi tavolini sistemati in platea e coinvolge in tal modo il pubblico in un autentico dialogo.
Risuonano prepotenti sulla scena gli attacchi che il poeta rivolse ai contemporanei intrappolati inesorabilmente nelle maglie di una società affetta dall’inguaribile malattia del consumismo, vittime senza scampo dei processi di omologazione e della conseguente scomparsa di ogni peculiare differenza antropologica.
Gifuni-Pasolini pone sotto accusa soprattutto il nuovo fascismo che, avvalendosi della collaborazione dei mass-media, impone falsi paradigmi di riferimento capaci di scalfire e lacerare, per sempre e nel profondo, l’anima del popolo italiano.
Nel riprendere la pasoliniana condanna del Nuovo Potere, nella critica della “banalissima televisione”, l’attore romano mira a sollecitare negli spettatori un confronto con l’attuale tragica situazione dell’Italia.
Gifuni ha del resto dichiarato in una recente intervista di essere “sempre più convinto che i teatri, oggi più che mai, siano il luogo dove poter giocare una battaglia fondamentale per i destini culturali del nostro Paese”.
Due sono le parti che compongono questo spettacolo e il momento di separazione è segnato dal denudarsi dell’interprete che lentamente abbandona la platea, sale sul palcoscenico e si cala nel ruolo del “padre”.
In questo monologo tratto da “Lettere luterane” l’attore affronta un tema affascinante della poetica pasoliniana, mutuato dal teatro greco: le colpe dei genitori responsabili, tra le altre cose, dell’instaurazione del nuovo fascismo, contaminano e si ripercuotono sui discendenti che, per quanto buoni o innocenti, sono costretti a scontare una necessaria punizione.
“I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è terrorizzante… essi non hanno espressione alcuna… Nei casi peggiori sono dei veri e propri criminali. Quanti sono questi criminali? In realtà potrebbero esserlo quasi tutti”.
Tali parole servono a Gifuni per delineare non solo un realistico ritratto delle nuove generazioni nell’ottica pasoliniana, ma gli occorrono soprattutto in quanto sembrano costituire una perfetta descrizione ante litteram di Giuseppe Pelosi, assassino dello scrittore friulano.
E così, cambiando nuovamente l’abito, il travolgente interprete dà inizio alla seconda parte dello spettacolo in cui da “padre” si trasforma in “figlio” e, precisamente, nell’omicida noto con il soprannome di Pino la rana, uno di quei “ riccetti” tanto amati da Pasolini.
Nei panni dell’assassino e in preda ad un frenetico delirio, Gifuni rievoca la tragica morte del poeta, le ultime ore di una straordinaria esistenza conclusasi prematuramente ad Ostia.
Un significativo cambiamento di registro linguistico si nota nel finale che genera inquietudine: dalla raffinatezza ed estrema precisione della prosa pasoliniana proposta si vira verso il dialetto romanesco.
Questo mutamento stilistico si avvale degli endecasillabi tratti dal poema “Il Pecora” di Giorgio Somalvico.
Un unico dubbio pervade: questo spettacolo che, soprattutto nella prima parte, consente di riscoprire l’arguta e complessa ideologia di Pasolini potrà davvero conquistare il pubblico più giovane?