Molto rumore per nulla di Shakespeare in (un’insolita) versione gipsy: Giancarlo Sepe ripensa la celebre commedia ambientandola in un campo nomadi alle porte dell’assolata città di Messina che la sera si popola magicamente di gente che vive la strada e che si riunisce per raccontare e tramandare storie di amore e di passione.
Il tutto giocato attraverso un doppio registro drammaturgico, che vede da una parte la comunità che recita e che osserva e dall’altra la commedia di Shakespeare. È così, in una scenografia che ricostruisce un campo nomadi un po’ in decadenza fra tendaggi e lamiere e di dubbia e incerta collocazione temporale che prende vita la ben nota commedia di Shakespeare.
L’elemento ibrido resta senza dubbio gli elementi portanti di questa versione gitana del testo: oltre a una spiccata contaminazione linguistica, fra napoletano, siciliano e dialetti settentrionali, è ben visibile anche una forte contaminazione a livello estetico con la sfolgorio folkloristico dei costumi di incerta collocazione temporale.
Siamo a cavallo fra gli inizi del Novecento e i giorni nostri, fra gonne ampie, lustrini e giacche di paillettes, cinture, scialli e ventagli o cappotti lunghi e ancora divise e alamari per gli uomini, reggiseni a vista per le donne, bene agghindate di orecchini, bracciali e collane.
Insomma il pot-pourri linguistico e visivo è davvero dietro l’angolo anche se il testo, bellissimo, di Shakespeare c’è e si sente e la versione, seppur molto diversa dal consueto, riesce a regalare più di qualche emozione e la giusta dose di brio.
La storia è ripensata attraverso la comunità (tutti restano quasi sempre in scena ad osservare tacitamente), costantemente accompagnata dalle nenie gitane, ora malinconiche, ora vivaci. Non manca poi qualche eccesso secondo il regista: il matrimonio viene rappresentano in stile icona russa, la finta morte di Ero diventa una sorta di sceneggiata napoletana, il fratello cattivo di Don Pedro, Don Juan, artefice del complotto, diventa un villain quasi ridicolizzato, una macchietta che parla napoletano e che sembra avere ben poche idee rispetto al suo furbo tirapiedi Borraccio e la dolce Ero ha ben poco di virginale perdendosi in atteggiamenti alquanto discinti in contrasto con la compostezza quasi ingenua di Claudio.
Benedetto e Beatrice restano senza dubbio i personaggi più coinvolgenti della storia per le loro irresistibili schermaglie amorose: l’onore e l’onore di portarli in scena a Francesca Inaudi (volto amato dal pubblico cinematografico e televisivo) e a Giovanni Scifoni che mostrano sul palco una buona alchimia e che si rendono credibili, impegnandosi e non poco, nel creare i bisticci e le inquietudini amorose fra una bisbetica e uno scorbutico che a poco a poco lasciano trapelare il loro vero essere.
Una messinscena all’insegna della contaminazione linguistica, musicale e temporale, un po’ inusuale per Shakespeare che lascerà un po’ interdetti i puristi, ma che tutto sommato non dispiace regalando nuova vitalità a un testo di per sé magnifico, sempre piacevole da rivivere. In scena fino al 26 gennaio al Teatro Eliseo di Roma.