Un bacio è un gesto d’affetto, un’espressione emotiva, un impeto dei sentimenti. È assurdo che un uomo o una donna non possano baciare persone dello stesso sesso pubblicamente senza essere derisi, sbeffeggiati e, nel peggiore dei casi, picchiati duramente. In Still life di Ricci/Forte, andato in scena ai Teatri di Vita di Bologna, si dà uno schiaffo morale a tutti questi pregiudizi: gli attori, infatti, a un certo punto si dirigono verso il pubblico – più volte chiamato a partecipare in questa pièce – e baciano passionalmente le persone del proprio sesso. Attraverso questo gesto molto forte e simbolico i registi hanno voluto rompere il muro d’imbarazzo di chi osserva e di vergogna degli omosessuali che si sentono ostacolati nel desiderio di esternare i propri sentimenti davanti a tutti.
Arrivare a uccidersi a causa dei pregiudizi e dell’odio verso il “diverso”, il non conforme e dell’impossibilità di poter essere ciò che si è senza timori è una tragedia della società, cosiddetta, civile. Per fortuna ci sono luoghi, come il teatro, in cui è ancora possibile denunciare, farsi sentire e congiurare l’ignoranza e l’oblio. Still Life vuole tenere accesa l’attenzione sul tema dell’omofobia attraverso una serie di riflessioni. I lumini che ardono in fondo al palco sono il primo indizio della necessità di condannare e di trovare dei simboli prorompenti affinché il messaggio sia chiaro e arrivi a più persone possibili.
I fili tessuti in questo spettacolo creano una trama ricca di contenuti: dal filo di lana rosa – come la sciarpa del ragazzo che si è suicidato a Roma – che lega i giovani in una società opprimente e soffocante come i cuscini che coprono il volto di quattro attori mentre raggiungono molto lentamente lo spettatore. Arrivati sul ciglio del palco, però, quei cuscini vengono squartati, i volti soffocati mutano e assumono le sembianze delle papere, simbolo di una società stolta e superficiale in cui le Istituzioni, incuranti del problema, si esonerano da ogni tipo di responsabilità e, attraverso dei comunicati pieni di demagogia, puliscono le loro coscienze senza mai porsi davanti al problema dell’omofobia seriamente.
Un altro filo che intreccia questo racconto è la parola “Genere”, che oggi significa differenza, disuguaglianza e che invece può semplicemente significare che siamo uomini e donne e siamo liberi di amare chi vogliamo. E poi il filo dei sentimenti tocca anche la genitorialità, la possibilità di avere dei figli anche se si ama un individuo dello stesso sesso. E così le due mamme che raccontano come vorrebbero educare il proprio figlio, libero da pregiudizi, da gabbie consumistiche, dal desiderio di omologazione fa venire voglia di desiderare che tutti i genitori avessero queste idee e fa capire come sia possibile, con l’amore educare “Persone” e non bestie.
A essere messo in discussione per tutta la pièce è proprio quel concetto di normalità. Ci si chiede cosa sia questa normalità. Chi la stabilisce? Quali sono i confini? Per rientrare in essa dobbiamo essere tutti uguali? Uomini in serie? Forse è ora di cominciare a credere che l’idea di normalità è assurda e non esiste.