Non ci sono pause negli spettacoli dello Spellbound Contemporary Ballet. La tensione emotiva è incessante, il vortice dei corpi lascia scie sulla scena come le fotografie dai tempi di esposizione prolungati. È tale il dinamismo, l’estensione dei movimenti, la loro millimetrica precisione, che gli occhi non fanno davvero in tempo a registrare tutto. Dalle loro performance si viene sopraffatti, come un improvviso rossore che colora le guance. Un’emozione che si è nuovamente manifestata con lo spettacolo “20 years of Spellbound. 1994/2004”, andato in scena mercoledì 15 gennaio all’Auditorium Conciliazione di Roma, nell’ambito della rassegna “Tersicore, nuovi spazi per la danza”, giunta all’ottava edizione. Uno spettacolo pensato per festeggiare i vent’anni di attività della compagnia guidata da Mauro Astolfi, coreografo di valore e riconoscimenti a livello internazionale, portatore di una ricerca artistica, realizzata attraverso un ensemble di giovani (e straordinari) danzatori, che unisce rigore formale e gioiosa creatività.
Lo spettacolo, diviso in due parti, ha messo assieme quadri di recenti coreografie e nuove produzioni. Il primo tempo, intitolato “Reshaping the past”, è stato il riadattamento di estratti da “Relazioni (pericolose)”, del marzo 2012, e di “Lost for words. L’invasione delle parole vuote. Studio III”, del maggio scorso (quest’ultimo, tra l’altro, è stata l’unica produzione europea assegnataria di un National dance project negli Stati Uniti per la stagione 2012-2013). Due lavori importanti per la compagnia, in cui la ricerca dell’unità tra musica, immagini e corpi raggiunge vette di innegabile bellezza. Molto interessante è la scelta di presentarli di seguito, seppur diversi, senza soluzione di continuità: in entrambi, infatti, Astolfi indaga le relazioni umane, in quello spazio inconscio da cui la verbalità è espulsa. Ci mostra così un universo di rapporti continuamente interrotti e ricomposti, rapporti apparentemente normali ma in realtà sanguinosi, vissuti all’insegna delle passioni, come lotta e come struggimento. Un susseguirsi di abbracci e separazioni, movimenti corali e passi a due, assoli e diacronie collettive, che plasticamente riproduce e ci parla delle nostre stesse vite.
Il secondo tempo, intitolato “Dare”, è invece un debutto in prima mondiale. “Dare – spiega il coreografo – racconta una cosa semplice: a volte, anche nella vita reale e non solo nei film, se non ci si concentra solo sulle cose che non vanno bene, si incontrano quelle che vanno bene”. In questo spettacolo ritroviamo i migliori caratteri della ricerca personale di Astolfi: il contatto come base per l’esplorazione dello sconosciuto, l’ambivalenza della forza di gravità, la fluidità e l’elasticità dei movimenti, l’evidenza atletica. Dare è un invito ad abbandonarsi alla magia degli incontri: immersi in una scena da “salotto borghese” (sul palco troviamo un letto, un divano, una toilette, e libri, tavoli, lampade, vasi di fiori), i nove ballerini ridanno valore a ogni singolo gesto comune, superano la propria solitudine facendo ricorso a un surplus di energia, di vivacità, di potenzialità umane che proprio quella stessa quotidianità, citata appunto nella scenografia, vorrebbe annullare. Magistralmente sorretto dai tagli di luce del (sempre bravissimo) light designer Marco Policastro, e parimenti da soluzioni sceniche (come la conclusione, di cui però lasciamo la sorpresa) di grande impatto visivo, Dare spinge a mettere al centro di ogni azione la spontaneità del dono, la dolcezza dell’innamoramento, la potenza della grazia.