nella versione originale del 1875, con i dialoghi parlati.
Opéra comique in francese in quattro atti di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, dalla novella omonima di Prosper Mérimée.
Un minuto di silenzio in ricordo del Maestro Claudio Abbado
S’è spento il sole in terra gitana.
Una Carmen opaca, senza il colore spagnolo.
Un teatro che allestisce solo due opere l’anno deve puntare sull’intelligibilità e sulla piacevolezza dello spettacolo, mantenendo dignitoso il livello della qualità. Il Teatro della Fortuna di Fano ha avuto la buona idea di programmare insieme al Teatro delle Muse di Ancona e di allestire gli spettacoli insieme ai teatri di Livorno, di Pisa e di Lucca. Da qualche anno ha intrapreso anche un percorso di coinvolgimento delle scuole e gli alunni delle superiori vengono ospitati alla prova generale, ma proprio per ottimizzare questo percorso di formazione non si può lesinare sull’intelligibilità dello spettacolo. Riferendomi alla
Carmen di Bizet, andata in scena il 24 e il 26 gennaio 2014 nell’edizione originaria, parlata e cantata, è stato un grave errore non proiettare la traduzione del testo francese; pur conoscendo la trama, ma non la lingua, quattro ore di dialoghi incomprensibili sono pesanti specialmente per chi va all’opera per la prima volta. Inoltre un’opera della durata di quattro ore deve iniziare non oltre le 20 se è serale e non oltre le 16 se è pomeridiana.
Carmen comunque attira, per il colore e il calore della Spagna, per la sensualità e la spregiudicatezza della protagonista, per la passionalità di Don Josè, per l’esuberante fascino di Escamillo, per il dolce lirismo di Micaela, e, se tali prerogative vengono eluse, si rimane veramente delusi.
In questo allestimento al Teatro della Fortuna di Fano il colore spagnolo è completamente assente sia negli ambienti monocromatici che nei costumi poveri e scialbi, tranne quello del torero. La scena fissa, che riproduce il muro dello Sferisterio di Macerata, praticabile su due piani, assume funzioni diverse nei vari atti: nel I atto rappresenta i bastioni di Siviglia (con in alto soldati e fumatori affacciati sulla sottostante piazza del mercato con bancarelle, un flipper con giocatori e bambini seduti a lato), nel secondo le pareti illuminate da dietro dell’osteria (piena di gente ai tavoli che beve birra, alcuni uomini arrivano con la valigia, alcune coppie amoreggiano), nel terzo i fianchi della montagna innevata lungo i quali vengono fatti salire e scendere con delle corde i pacchi dei contrabbandieri (già visto a Macerata), nel quarto il muro dell’arena. Le scene di Nicola Bruschi sono funzionali, ma, per quanto le luci di Bruno Ciulli possano fare, l’impressione che rimane è l’uniformità. “Va be’, direte, vi sarete rifatti l’occhio coi costumi colorati e svolazzanti di Carmen, con la sua lunga capigliatura nera sbattuta ai quattro venti, col fiore rosso tra i capelli o magari tenuto tra i denti, con la sua bellezza procace e le sue danze provocatorie…” Macché! Niente di tutto questo. Il colore dominante dei costumi delle masse è il marrone nelle varie gradazioni. Carmen è piccoletta e rotondetta, ha i capelli corti alla maschietta, indossa un paio di rossi pinocchietti e una corta camicetta che lascia scoperta un po’ di pancetta opportunamente coperta da una nera veletta; nella taverna di Lillas Pastia non è Carmen a danzare sui tavoli, ma le altre donne presenti, lei se ne sta in disparte vestita come le nostre nonne in cucina, (avete presente quelle vestagliette che si incrociano?), poi fa uno spogliarello per trattenere Josè che però scappa. La regia di Francesco Esposito e i costumi di Alessandro Lai non sono in sintonia con “un’opera tutta chiarezza e vivacità, piena di colore e di melodia“, come la definiva il suo compositore. Manca infatti l’effetto scenico dell’ “orda” colorata delle sigaraie, della marcetta festosa dei bambini, del caratteristico corteo del torero, dei vivaci costumi spagnoli, della spettacolarità delle scene di massa, ma soprattutto manca il colore locale e a volte anche il movimento. Il più credibile è Escamillo, vestito da torero, e ovviamente Josè e i militari. La scelta registica di far gettare Carmen sul coltello di Josè è poi la meno credibile. Figuriamoci se in nome della libertà e dell’indipendenza una persona compie un’azione simile. “Ma mi faccia il piacere” direbbe Totò. Le mediocri coreografie del Corpo di ballo Altradanza sono di Domenico Iannone.
Agata Bienkowska, al suo debutto nel ruolo di Carmen, esibisce vocalità densa, consistente e rotonda, estesa e vibrante, luminosa negli acuti, ma i suoni gravi a volte sono cupi e intubati. Si muove con padronanza scenica, ma non ha niente di Carmen, né il
fascino, né la sensualità, né il carisma, e neanche l’aspetto vista la miseria del suo abbigliamento, nella scena di seduzione è spregiudicata e temeraria, ma gli atteggiamenti sono più sguaiati che sensuali.
Il soprano di coloratura Valeria Esposito (Micaela in blu) si avvale di una tecnica consolidata per usare correttamente un mezzo vocale pulito che non ha più tanto spessore né lucentezza, si avverte una certa fatica ma tutto è cantato bene nel rispetto dell’intonazione, della musicalità e dell’espressività.
Dario Di Vietri è un bel Don Josè istintivo e passionale, ha un bel timbro robusto e una bella cavata di voce, usata soprattutto di fibra con slanci acuti sostenuti e brillanti e squillo sicuro, irruente ma convincente
è un bravo interprete con una grande voce.
Il baritono Omar Kamata, in sostituzione dell’infortunato Marcello Lippi nel non facile ruolo di Escamillo, usa con morbidezza un mezzo vocale consistente e tiene la giusta intonazione.
Andrea Vincenzo Bonsignore (Morales) ha voce baritonale di bel colore ma di poco spessore, Franco Rossi (Zuniga) è un basso chiaro dalla voce aspra e poco ferma.
Cantano e recitano bene Giampiero Cicino (El Dancario), Andrea Schifaudo (El Remendado), Lara Rotili (Mercedes) e Paola Santucci (Frasquita).
Ben preparati sia il Coro del Teatro della Fortuna M. Agostini, diretto dal nuovo maestro Mirca Rosciani sia il Coro di voci bianche “Incanto” e “Pueri cantores del Mezio Agostini” guidato da Francesco Santini.
Il direttore Marco Boemi guida con partecipazione e competenza la brava Orchestra Sinfonica G. Rossini, che si destreggia bene nella sfavillante policromia delle pagine spagnoleggianti, nella dolcezza delle frasi musicali che evocano il passato, nella forza delle linee cupe della morte e di quelle calde dell’amore.