Continua, a Bologna, la rassegna “E La volpe disse al corvo. Corso di linguistica generale“, dedicata al regista teatrale Romeo Castellucci, cofondatore della compagnia Socìetas Raffaello Sanzio. L’ultimo, in ordine cronologico, dei progetti messi in scena è stato “Uso umano di esseri umani”, spettacolo presentato presso l’ex Ospedale dei Bastardini di Bologna, un complesso monumentale in fase di ristrutturazione.
Due ampie stanze, fredde e spoglie, illuminate dalla luce di un tenue sole invernale – lo spettacolo si svolge di giorno – fanno da cornice a una rappresentazione che trascina lo spettatore verso un’indagine interiore, sfidandolo a resistere alle varie prove che via via si avvicendano lungo l’itinerario pensato dal regista. Un percorso scomodo, sprovvisto delle comode sedie di velluto rosso che, in genere, accolgono gli astanti nei teatri. Qui ci si trova all’interno di un complesso disadorno, austero, sicuramente poco agevole. Nella prima stanza in cui si entra a essere colpito, prima ancora dello sguardo, è l’olfatto: un terrificante odore di ammoniaca si propaga nell’aria, impedendo a più persone di respirare comodamente. Inizia la performance e con essa il disagio per chi osserva, un disagio denso di significato dove lo spettatore diventa uno di quegli esseri umani usati da Castellucci per veicolare il suo concetto di teatro e di arte.
Vestiti con una tuta bianca di protezione e una maschera antigas, gli attori in scena iniziano a muovere il grande cerchio che riproduce lo schema circolare della Generalissima, la lingua artificiale coniata nel 1985 dalla Socìetas Raffaello Sanzio a partire dalle lingue creole e dall’Ars Magna di Raimondo Lullo, concepita su basi numerologiche. Lentamente, gli attori muovono la ruota che andrà a chiudere la porta da cui si è entrati, unica via d’uscita. L’inquietudine dello spettatore aumenta sempre più e, in quella stanza dalla quale non si può scappare, con quell’odore insopportabile, sembra di essere all’interno di un sepolcro, in prossimità di decomporsi e ci si sente fragili e indifesi. Mentre gli attori sono protetti con le tute e le maschere, chi osserva è inerme. Il freddo invernale penetra dentro le ossa e, seppure in mezzo a tante altre persone, si è soli a fare i conti con il concetto di morte.
Per fortuna il sepolcro preparato per noi da Castellucci si riapre per permettere di entrare nella seconda stanza, quella in cui si svolgeranno gli esercizi della lingua Generalissima su quattro livelli. Le tele imballate che fanno da sfondo vengono via via spostate finché si arriva all’ultimo dipinto scartato nel quale è rappresentato l’affresco di Giotto “La resurrezione di Lazzaro”. Entrano in scena Gesù e Lazzaro, vestiti in giacca e cravatta, forse per rendere più attuale possibile il loro dialogo nel quale Gesù si appresta a resuscitare Lazzaro, ma quest’ultimo non vuole perché non accetta l’idea di vivere ancora una volta, non vuole ricominciare il suo cammino, preferisce la morte alla vita. La scena sarà rappresentata per quattro volte, tante quanti sono i livelli della Generalissima.
Avanzando i livelli, il linguaggio diventa sempre più indecifrabile, più evanescente e perde via via significato. Il senso però rimane invariato e a supportarlo non sono più le parole, ma il gesto, il linguaggio del corpo. L’ultimo livello prevede l’uso di quattro parole miscelate tra loro in modo da creare un suono armonico in cui non è più il contenuto a dare senso: la parola, perdendo ogni significato diventa un significante essa stessa.
Alla fine torna in scena il grande cerchio che avevamo trovato nella prima stanza e diventa la bara su cui viene adagiato il Cristo morto al quale si sovrappone la figura di Lazzaro, il tutto accompagnato dal canto difonico di origine tibetana eseguita dal gruppo russo Phurpa. Questa musica finale vibra nell’aria e percuote il corpo di chi ascolta. Pochi sono quelli disposti a lasciarsi andare a questo mantra sonoro. Rimanere e diventare la cassa di risonanza di questo suono straziante è l’ultima prova chiesta allo spettatore. Non tutti riescono a resistere e molti escono prima che il suono cessi.