violino Maurizio Deho’, clarinetto Paolo Rocca
fisarmonica Albert Florian Mihai, contrabbasso Luca Garlaschelli
suono Mauro Pagiaro
produzione Promo Music
durata della rappresentazione 120’ circa, senza intervallo
Arriverà sul palcoscenico del Teatro Nuovo di Napoli, martedì 11 marzo 2014 alle ore 21.00 (repliche fino a domenica 16), Cabaret Yiddish lo spettacolo che ha sancito il successo teatrale e musicale di Moni Ovadia e ha diffuso la conoscenza della cultura yiddish e della musica klezmer.
In occasione delle repliche partenopee, il direttore del Corriere Del Mezzogiorno, Antonio Polito, incontrerà Moni Ovadia mercoledì 12 marzo alle ore 18.00 presso la Feltrinelli Musica e Libri di Piazza Dei Martiri.
Cabaret Yiddish è lo spettacolo che ha reso celebre Moni Ovadia e da cui è derivato un altro titolo famoso, Oylem Goylem. Nelle due parole del titolo si racchiude tutta la sua singolare magia: un cabaret in senso stretto (nel suo alternare brani musicali e canti a storielle, aneddoti, citazioni), ma con il sapore di steppe e di retrobotteghe, di strade e di sinagoghe, perché dedicato a quella parte di cultura ebraica di cui lo Yiddish è la lingua e il Klezmer la musica.
Un vademecum chiaro ed esplicito quello di Moni Ovadia, che fin dal titolo, invita il pubblico a seguirlo attraverso un viaggio d’esplorazione nella cultura delle proprie origini. Cabaret Yiddish, prodotto da Promo Music di Marcello Corvino, è una miscellanea di musica klezmer e cliché su nasi lunghi e avidità, semplice ed efficace, nel quale il pubblico si trova a proprio agio, anche se non capisce la lingua delle canzoni, anche se conosce solo una parte della storia, forse quella più oscura, più triste.
Al centro di una scena nuda, riempita solo da quattro musicisti, Maurizio Deho’ al violino, Paolo Rocca al clarinetto, Albert Florian Mihai alla fisarmonica e Luca Garlaschelli al contrabbasso, il cantore inizia, senza troppi preamboli, la sua storia con un sorriso. Un sorriso antico ed esperto, di chi fin dall’alba dei tempi ha dovuto sfruttare l’ironia per far fronte alle proprie disgrazie e ha saputo riciclare aneddoti e storielle per forgiare una sagace oratoria in risposta al razzismo e alle calunnie.
Tutto nasce da un paradosso che vede impegnato il popolo ebraico guidato dal «povero» Mosé a vagare per svariati anni in un deserto, senza una terra e con l’esilio costante come essenza stessa della propria cultura. Ma se il deserto non ha confini fisici, il popolo delinea i suoi, attraverso la propria lingua, la propria musica, la propria preghiera e i propri costumi, tessendo una coesione tanto più impressionante quanto più lontani ne sono gli attori, una molteplicità di soggetti sparsi per il mondo, dall’Europa al Medio Oriente agli Stati Uniti.
Proprio attraverso le singole «storielle» che accomunano per stereotipo ogni ebreo, Moni Ovadia è capace di far ridere il suo pubblico, ma al contempo di fare emergere quel fondo di verità tipicamente popolare, per spiegare i cardini della cultura sionista, dal dialogo con il divino a quello con la famiglia matriarcale, passando per il rapporto con il denaro, con i caratteri somatici, con il razzismo e il confronto con le altre religioni.
Napoli, Teatro Nuovo – dall’11 al 16 marzo 2014
Inizio delle rappresentazioni ore 21.00 (feriali), ore 18.30 (domenica)
Info e prenotazioni al numero 0814976267, email botteghino@teatronuovonapoli.it
La lingua, la musica e la cultura Yiddish, quell’inafferrabile miscuglio di tedesco, ebraico, polacco, russo, ucraino e romeno, la condizione universale dell’Ebreo errante, il suo essere senza patria sempre e comunque, sono al centro di “Cabaret Yiddish” spettacolo da camera da cui è poi derivato il più celebre Oylem Goylem.
Si potrebbe dire che lo spettacolo abbia la forma classica del cabaret comunemente inteso. Alterna infatti brani musicali e canti a storielle, aneddoti, citazioni che la comprovata abilità dell’intrattenitore sa rendere gustosamente vivaci. Ma la curiosità dello spettacolo sta nel fatto di essere interamente dedicato a quella parte di cultura ebraica di cui lo Yiddish è la lingua e il Klezmer la musica.
Uno spettacolo che “sa di steppe e di retrobotteghe, di strade e di sinagoghe”. Tutto questo è ciò che Moni Ovadia chiama “il suono dell’esilio, la musica della dispersione”: in una parola della diaspora.
La musica Klezmer deriva dalle parole ebraiche Kley Zemer, che si riferiscono agli strumenti musicali (violino ed archi in genere e clarinetto) con cui si suonava la musica tradizionale degli Ebrei dell’est europeo a partire all’incirca dal XVI secolo.
«Ho scelto di dimenticare la “filologia” per percorrere un’altra possibilità proclamando che questa musica trascende le sue coordinate spazio-temporali “scientificamente determinate” per parlarci delle lontananze dell’uomo, della sua anima ferita, dei suoi sentimenti assoluti, dei suoi rapporti con il mondo naturale e sociale, del suo essere “santo”, della sua possibilità di ergersi di fronte all’universo, debole ma sublime.
Gli umili che hanno creato tutto ciò prima di poter diventare uomini liberi, sono stati depredati della loro cultura e trasformati in consumatori inebetiti ma sono comunque riusciti a lasciarci una chance postuma, una musica che si genera laddove la distanza fra cielo e terra ha la consistenza di una sottile membrana imenea che vibrando, magari solo per il tempo di una canzonetta, suggerisce, anche se è andata male, che forse siamo stati messi qui per qualcos’altro».
Moni Ovadia