Dolore e morte, amore e risate. Dramma e commedia. Possono coniugarsi tali sentimenti contrapposti e possono coesistere i due diversi registri stilistici in un unico lavoro?
Antonio Grosso riesce a fornire risposte esaurienti a questi interrogativi con un testo realistico e poetico al contempo, in cui si passa con naturalezza dal dolore incontenibile per la perdita del figlio, alla battuta sarcastica da commedia dell’arte napoletana.
L’esperienza del lutto improvviso per un incidente con la moto spezza l’esistenza di un uomo, già provato dall’abbandono della moglie.
Le sue farneticazioni davanti a un modello di trenino elettrico che gira incessantemente si infrangono sui binari della pista, unica espressione di vita e di movimento nella stagnazione della sua anima. Viene strappato ai suoi vaneggiamenti dalle incursioni improvvise e un po’ moleste e dagli origliamenti del vicino di casa, accompagnato dal figlio un po’ tonto e un po’ mitomane che si vanta di aver compiuto gesta valorose in Iraq.
Con sagacia e bonomia l’amico gli ricorda che ci sono le spese del funerale da pagare, perché una morte oltre che sugli affetti incide anche sulla tasca.
Dal profondo del suo cuore il padre fa affiorare i ricordi, i momenti di tenerezza, le domande che il figlioletto gli rivolgeva con l’ingenua curiosità dei bambini, per esempio se esiste il paradiso. I fuochi d’artificio esplosi nel cielo all’improvviso gli forniscono la risposta: “il paradiso è questo, figlio mio!”.
Tenerezze, momenti felici, aneddoti, rievocazioni da opporre alla triste sorte di dover piangere un figlio, infausto destino per un padre.
La visita di Sara presentatasi come fidanzata di Giuseppe, lenisce le sue ferite: la ragazza vuole condividere con l’uomo la felicità vissuta col suo ragazzo mostrandogli le foto dei loro viaggi e del loro amore, svelando piccoli segreti. Condividere il dolore con chi ha avuto lo stesso oggetto d’amore è balsamo per il suo cuore martoriato, e la mente si perde nelle praterie del suo amore paterno: il suo ragazzo gli appare accanto, gli parla sente essere visto, lo stuzzica e lo rincuora.
Pian piano l’uomo perde il senso della realtà, scivola verso l’oblio, fino a penetrare nell’universo del figlio: un mondo in cui vige l’amore ed è bandito il dolore. È forse questa la vera realtà?
La lingua napoletana, con le sue espressioni gergali pregnanti e fataliste, regala molta incisività ai dialoghi di un testo ben scritto e ben recitato.
Gennaro Cannavacciuolo è un padre dolente e amorevole; Enzo Casertano e Antonello Pascale esprimono il giusto grado di preoccupazione mista a invadenza dei vicini di casa. Roberta Azzarone è la fidanzata “sconosciuta” che parla con accento palermitano. L’autore Antonio Grosso riserva per sé la parte scanzonata del figlio, fulcro con la sua presenza/assenza della vicenda.
Le scenografie di Alessandra Ricci integrano lo spaccato di un “basso” con un interno in cui è disposto un trenino, metafora del viaggio della vita. L’effetto di comica drammaticità e di leggerezza onirica della rappresentazione, oltre che al testo, è ampiamente da ascrivere alla regia di Paolo Triestino.