Per il loro secondo Pirandello insieme, dopo I giganti della montagna, la compagnia Lombardi e il regista Tiezzi hanno scelto Non si sa come , dramma scritto nel 1934, che si contende con il precedentemente menzionato il titolo di ultima opera dell’autore siciliano. In questa sua ultima fase di produzione teatrale, Pirandello vuole portare sulla scena quello che accade – o potrebbe accadere, dato il carattere surrealistico di queste opere- al di fuori dalla società. In pieno regime fascista, Non si sa come descrive una borghesia chiusa in se stessa, che esterna quello che ha dentro senza farsi partecipe di ciò che la circonda. Solo un’ombra insidiosa può interrompere la spensierata superficialità di quest’agiatezza: la pazzia. O almeno come tale viene avvertita dai personaggi questa ventata nuova che li smuove e li scompiglia. Li scaraventa in un mare di tensione, in un un eterno conflitto con loro stessi. Il pazzo è Romeo Daddi (Sandro Lombardi), marito di Bice (Pia Lanciotti), che ha tradito la consorte e l’amico Giorgio Vanzi (Francesco Colella) con la di lui moglie Ginevra (Elena Ghiaurov). Il tormento che contagia a poco a poco tutti i personaggi non ha nulla di collettivo, è la più intima controversia che ognuno ha con la propria coscienza, e in questo emerge, manifesta e inequivocabile, la penna di Pirandello. Il perno intorno al quale ruota questo arrovellamento comune e individuale è la responsabilità dell’uomo di fronte a un atto delittuoso commesso in una situazione di quasi delirio, di dominio delle passioni sulla ragione, commesso, insomma, non si sa come. Romeo Daddi ha bisogno di pensare che quello che è accaduto a lui, quella sensazione di momentaneo estraniamento possa rapire tutti, che nessuno possa vantare una coscienza immacolata, e che proprio per questo nessuna colpa di questo genere possa essere perseguibile da alcun tipo di morale. Ha bisogno di credere che l’adulterio, il tradimento nei riguardi dell’amico, l’omicidio involontario che ha commesso quando era bambino siano delitti innocenti; e davanti alla figura del bambino, innocente per antonomasia, nessuno si sente più di poterlo chiamare pazzo, tanto meno lo spettatore, catapultato nei panni del protagonista da un monologo magistrale. L’ambientazione scompare sotto il peso del personaggio e del suo dramma interiore, quasi a dire che non c’è rifugio che tenga, quando il persecutore è dentro noi stessi. Ogni azione rivela un pensiero grave, un’analisi microscopica dell’animo umano, e mai soltanto un semplice gesto scenico. È incredibile, come ammette lo stesso Lombardi, che pure ha confessato di non essere sempre stato un estimatore di Pirandello, “come fa quest’uomo a capire in maniera così sottile quello che avviene negli esseri umani” e a riversarlo con tanta facilità su un palco scenico. Si avverte la giustapposizione, affatto contraddittoria, tra la plasticità delle emozioni e la mancata caratterizzazione dei personaggi: la realisticità è imposta dal contenuto e non definita dalla forma. Ma oltre a questo, a cui i lettori di Pirandello sono avvezzi, c’è un aspetto più velato e profondo del dramma,che tocca più da vicino l’autore e che il regista Tiezzi ha giustamente interpretato come una “metafora inconscia del suo rapporto col regime fascista”, rapporto di cui si ha un quadro assai poco chiaro e su cui le opere sembrano discordare con le parole. Proprio in quest’ottica, Non si sa come potrebbe rappresentare, alla conclusione della produzione letteraria pirandelliana, la verità sfogata dell’autore su ciò che gli si dibatteva dentro, una paura, conscia o inconscia che sia, di avere una certa responsabilità in qualcosa di involontario, il che sottintende, comunque, la consapevolezza dell’errore. Ne I giganti della montagna, in cui è spesso rilevata una critica nei confronti dei gerarchi fascisti,e in Non si sa come, Pirandello, come il suo Daddi, sente di dover autoassolversi pubblicamente, opera come un’apologia, raffinata e gustosissima, di se stesso.