– Quando la filosofia incontra il teatro –
Si apre il sipario ed appare Giove, (Paolo Graziosi) seduto di sghimbescio su un trono di legno con “quell’aria un po’ così”: drappeggi di stoffa lasciano scoperte gambette che sembrano malferme, anche da ferme… sicuramente provato dall’età, Giove sembra proprio uno straniero, (come la canzone di qualche anno fa), che parla strano, articolando esageratamente ogni sillaba per farsi intendere bene da un’umanità composta da “bambini” un po’ tonti o appunto da “stranieri”. E racconta la storia del genere umano. Un lungo prologo che prolunga l’attesa dell’incontro tra la filosofia e il teatro.
Si è delusi! È tutto nero, una camera con strane pareti, che si intuiscono mobili, a nascondere macchine sceniche o strutture che attendiamo di vedere. Sì, perché in tanti qui in teatro sono accorsi richiamati dalla firma di Mimmo Paladino per le scene. Ma per il momento è tutto nero… e la tanto attesa scenografia di Paladino dov’è? Irrompono sulla scena Atlante (Renato Carpentieri) e un giovane Ercole (Giovanni Ludeno). Giocano a palla con la terra che è sempre più piccola ed un po’ sgonfia, insomma malandata. Di come si divertano gli Dei con l’infelicità degli uomini son piene le pagine dei libri.
Cominciano le sorprese: bella appare la luna (Iaia Forte) nel suo luminoso percorso in tondo intorno alla terra (Barbara Valmorin )… Sono i primi segni di Paladino: due sfere, due palle a confronto, l’una in movimento, l’altra ferma costretta su una carrozzella, tanto malandata è la terra. Sembrano sospese nel vuoto, e illuminano il nero. Luce-Ombra.
Si alza una parete e appare, nel fumo che invade la scena, una suggestione rossa infernale, Rosso-Nero.
Uno squarcio nel buio, una ferita, una porta d’uscita dalla prigione, la libertà sofferta apre una soluzione al torpore della mente che confonde sogni e realtà: d’altronde la dicotomia bene-male/ felicità-infelicità /sottende tutta l’opera del nostro Leopardi.
Poi l’attesa viene premiata. La sola apparizione della Natura inserita dolcemente nella cavità della grande scultura-Totem basta ad impressionare tutti e un mormorio di stupore, di ammirazione mista a voluttà soddisfatta attraversa la platea. Ora il segno c’è!
E la regia? Mario Martone, ex- ragazzo prodigio, grande promessa del teatro italiano, sperimentatore e ricercatore di nuovi linguaggi, che ora si dedica a Leopardi (ovviamente non solo), ci aveva abituato a soluzioni più ardite, ma mantiene l’eleganza della scena, con quadri di fotografica bellezza, avendo ormai raggiunto una maturità che gli permette con pochi segni una grande firma.
Il primo tempo si chiude con una scena corale, di grande effetto. Ci riporta all’emozione struggente delle baracche dove gli ebrei aspettavano di morire. Qui invece gli attori sono già morti e nel breve tempo a loro concesso cantano una nenia, da risvegliare i vivi. Morte-Vita.
Il secondo tempo scorre più velocemente, perché anche il pubblico è entrato in sintonia col gioco scenico e ormai sa cosa aspettarsi.
Ancora sorprese e brave le attrici nel dialogo fra la Morte e la Moda che si parlano attraverso una specchio ovale che col neon illumina la scena. Anche le altre Operette diventano più familiari perché maggiormente comprensibili nel linguaggio e nella forma.
Interessante e forse un po’ iniziatico il viaggio di Prometeo, ed emozionante la vela che si gonfia sul palco con Cristoforo Colombo che scruta il cielo mentre il grido degli uccelli (“questi non sono uccelli marini”) fa presagire la tanto agognata… terra!…
“Dicono i poeti che la disperazione ha sempre nella bocca un sorriso” (Leopardi) 2
La contraddizione, la contrapposizione, la dualità è la necessaria asticella da superare con un salto per poter continuare nella corsa della vita, ed è squalificato chiunque tenti di barare passando sotto… l’asticella.
Lo spettacolo conquista il pubblico, non numeroso, ma si sa che la filosofia è difficile da digerire, anche a teatro.
Bravo Renato Carpentieri, attore che tiene magnificamente la scena da grande protagonista, e bravi tutti i suoi compagni, che rivestono i vari ruoli con costumi indovinati e giusti, ma mai sopra le righe.
Ricordiamo la drammaturgia di Ippolita Di Maio, e la musica per il Coro dei Morti di Giorgio Battistelli.
Le luci di Pasquale Mari sottolineano con sapiente maestria il disegno visivo evidenziando il particolare nell’ambito del totale ed accompagnano lo spettatore nel “guardare” la scena.
Spettacolo sicuramente difficile ma nel complesso una operazione ben riuscita della Fondazione del Teatro Stabile di Torino.
Il pubblico ha applaudito convinto e soddisfatto richiamando gli attori più volte alla ribalta.