Un’opera ben strutturata in quattro atti, alla maniera classica, registicamente quasi simmetrici, suddivisi da piccoli istanti di buio completo.
La scena è una semplice cucina, in cui però è ben riflesso, nelle sue mille sfaccettature, il rimbombo assordante della periferia urbana, della quale ogni problematica trova spazio non solo nei gesti più sfacciatamente scabrosi, ma in una banale, diffusa, sottesa attitudine alla violenza ed alla sottomissione alle sue dinamiche.
Tre personaggi, un dialogo incessante che coinvolge il pubblico in una fortissima tensione, offrendo amplissimi spunti di riflessione riguardo a molte problematiche della società odierna, e soprattutto riguardo alle modalità di approccio e reazione che si possono avere ad esse; riflessioni non cercate attraverso discorsi lenti e pesanti, bensì sorte spontaneamente di fronte all’osservazione di tipi umani che emergono dal dialogo pregno di simbolismo, e da una verità che affiora poco a poco, lasciata intendere e mai descritta, per poi essere traumaticamente svelata nel finale.
Un’opera moderna che ha molto del teatro classico greco, dalla capacità di trasportare ed emozionare fortemente il pubblico, alla non-rappresentazione diretta delle scene di violenza, e soprattutto nel ritrovamento del fulcro tragico nella perenne lotta tra giustizia sociale e giustizia privata.
La giustizia è tale in quanto giusta o in quanto applicata? Quali sono i criteri per la sua applicazione? Si può davvero parlare di “tipi umani”? Esiste il relativismo in giustizia, la annulla o la motiva? C’è qualcuno che davvero la garantisca?
Probabilmente una tragedia di difficile rappresentazione, ma perfettamente orchestrata dalla regia di Luca Ligato e animata dalle interpretazioni di Alice Redini, Dario Merlini e Umberto Terruso.