Con: Eros Pagni, Maria Basile Scarpetta, Angela Ciaburri, Marco Montecatino, Luca Iervolino, Federico Vanni, Massimo Cagnina, Orlando Cinque, Francesca De Nicolais, Dely De Majo, Rosario Giglio, Pietro Tammaro, Gennaro Apicella, Gino De Luca, Gennaro Piccirillo
Scene: Guido Fiorato
Luci: Sandro Sussi
Costumi: Zaira De Vincentiis
Musiche: Andrea Nicolini.
Produzione: Teatro Stabile Napoli e Teatro Stabile Genova.
Quando nel 1960 Eduardo De Filippo compose “Il sindaco del rione sanità” la morfologia della camorra era diversa da quella che oggi viene raccontata da Roberto Saviano; difatti pur non avendo a che fare con l’economia globale come i boss odierni, Don Antonio Barracano riflette la fase, se si vuole, più rudimentale e circoscritta del Sistema.
La trama divisa in tre atti si svolge quasi tutta, tranne per l’ultimo atto, a Terzigno dove riposa Don Antonio (Eros Pagni) e la sua famiglia, accompagnato dal medico sui generis Fabio Della Ragione (Federico Vanni la cui provenienza non partenopea si rivela incredibilmente efficace per restituire al personaggio una funzione oggettiva circa la morale e lo svolgimento drammatico) che già all’inizio è in pieno dissidio interiore in relazione all’illegalità in cui per trentacinque anni ha svolto il suo mestiere.
Don Antonio si è sostituito alla legge che non considera idonea o sufficiente per il popolo costituito da insanabili ignoranti e miserabili la cui mancanza di responsabilità individuale necessita la guida di un “pastore”. E così, nel suo studio, si alternano piccoli camorristi come Night e ‘o Colombello, lo strozzino ‘O Nasone con la sua vittima Vincenzo ‘O Cuozzo e poi, soprattutto, Rafiluccio (Orlando Cinque), giovane sprovveduto determinato a voler uccidere il padre Arturo Santaniello, colpevole di averlo diseredato dal mestiere di fornaio e da ogni aiuto economico.
Marco Sciaccaluga non sceglie a caso questo testo ma, scrutando in esso elementi addirittura shakespeariani, riesce a far della Sanità un contesto quasi universale in cui le parole dei personaggi e il loro destino risuonano tristemente veritiere prescindendo dal particolarismo tutto campano della Camorra.
Perciò la scenografia di Guido Fiorato sembra procedere per astrazioni e simbologia; con una luce trasversale di caravaggesca memoria e un piano inclinato e prospettico, lo studio di Don Barracano si presenta come potrebbe essere lo studio di un avvocato, con il codice di leggi posizionato beffardamente su un leggio e in fondo alla scena una fila di sedie a mo’ di sala d’aspetto dove la gente attende un’udienza con Barracano.
Egli dunque diviene il supplente della legge, una posizione che le parole dello stesso protagonista legittimano e confermano con la coerenza dell’azione drammatica; l’impossibilità per quella massa di ignoranti ad aspirare a vie legali e quindi alla giustizia ufficiale perché schiacciati sempre da chi riesce, pur con mezzi illeciti, ad avere la legge scritta dalla sua parte, giustifica la sua presenza, il suo lavoro.
Eros Pagni, genovese nei panni del Sindaco del rione Sanità riesce a caratterizzare il personaggio in modo eccellente, e come Eduardo, a conferirgli un realismo e una naturalezza espressiva tale da creare una misteriosa empatia col pubblico, calandosi non soltanto in una creatura che molti sono abituati a riconoscere solo in De Filippo, ma nel dialetto napoletano così dissimile dal genovese, eppure padroneggiato con disinvoltura tanto da renderlo lingua “universale”.
Ciò che emerge dalla performance dell’artista come dal lavoro di Sciaccaluga è la fedeltà al modello eduardiano comprese le sfumature farsesche (ad esempio, la scena delle banconote invisibili) delle quali il grande autore napoletano fa uso, accentuando, attraverso una beffarda ironia, la visione pessimistica. Inoltre, è evidente la coerenza rinvenuta nei sottotesti della drammaturgia dell’opera con i loro più recenti lavori shakespeariani (come “Misura per misura”) in cui il Bene e Male si confrontano nella loro frequente inestricabilità.
A tal proposito, il passato di Barracano che costituisce un solido richiamo alla vicenda quasi freudiana dei personaggi Rafiluccio-Arturo Santaniello, emerge specie nel secondo atto con una frequenza quasi ossessiva. L’aggressione subita da parte del guardiano Gioacchino e la decisione di ucciderlo, presa come una necessità esistenziale (“O io o lui”), pari a quella di Rafiluccio nei confronti del padre, il successivo processo e quindi l’assoluzione con mezzi illeciti, abilita paradossalmente Barracano a passare da pastore di capre a uomo potente e spregiudicato, stabilendo ciò che contesta alla giustizia ufficiale, e cioè la legge del più forte. Una sorta di “Misura per misura” se vogliamo restare in termini shakespeariani, ma anche un affresco crudamente verghiano della rozzezza del male che s’insinua nell’intelligenza raffinata del protagonista. E questa duplice natura Eros Pagni ce la rende limpida e chiara come difficilmente qualcun altro avrebbe fatto.
In questo caos e mondo paradossale appare assolutamente fondamentale il III atto, seppur avente un ritmo più lento rispetto agli altri, quando, dopo il ferimento mortale subito dal vile Arturo Santaniello, Don Antonio dà un banchetto, un topos che ricorda i tanti Don Rodrigo con la sua corte di bravi o il film Il Padrino e il relativo delirio di onnipotenza che corrompe la società o chi come Arturo non vorrebbe piegarsi. Sotto un soffitto simbolicamente sghembo rispetto ai due atti precedenti e con il suo “bevete e mangiate”, egli assume beffardamente i tratti di una sorta di Cristo che si sacrifica per il suo popolo, costringendo Della Ragione ad occultare le cause della sua morte al fine da non compromettere la famiglia in eventuali vendette e smascherando la disonestà del Santaniello, l’unico tuttavia a credere nella legge.
E la morte? Anche la sua morte suona in modo pessimistico. Certo, l’atto di onestà di Della Ragione apre quello spiraglio di liberazione da una presenza così ingombrante, ma non cambia le cose. Uomini come lui ci sono stati e per questo l’andazzo del mondo che “quadrato” non è, risulta irreversibile. O verità o falsa testimonianza la parte ignorante e più indifesa dell’umanità resta condannata.
Ed ecco che “Il sindaco del rione Sanità” esprime a pieno la visione che si snoda nella raccolta “La cantata dei giorni dispari” nella quale rinveniamo anche la “Napoli Milionaria” del 1943 in cui Eduardo aveva già delineato benché con una valenza diversa ai fini della drammaturgia dell’opera, quel sistema d’illegalità entro il quale la lotta per la sopravvivenza e la legge del più forte predominano con la loro irremovibile crudeltà che qui però diventano gli strumenti del sognatore Barracano che, a suo modo, desidera cambiare il mondo.
Eros Pagni trionfa al Teatro che fu dei De Filippo e con un testo che per tanti resta appannaggio dei loro soli eredi. Forse una responsabilità, ma soprattutto l’occasione per riservare al drammaturgo partenopeo una definizione più universale, un respiro europeo com’è giusto che sia perché nella Napoli di Eduardo tutti gli uomini possano riconoscersi e riconoscere la complessità di tutta quanta l’esistenza umana.