Gabriele Lavia ci accoglie nel suo studio alla Pergola: le pareti sono ancora nude, ché l’insediamento dev’essere stato recente. Ha una voce che tocca almeno i cento piedi di profondità, delle mani che si muovono nervose per combattere idee ostili, incapaci di uscire dal guscio così, limpide, e silenzi che si spezzano subito. C’è, in Lavia, l’urgenza della parola, il bisogno di dire, la consapevolezza di dover trovare, nell’imponente mole del suo sapere, l’espressione più vicina alla verità, quella che possa rendere al meglio il senso di ogni cosa. Nominato consulente artistico del teatro la Pergola, Lavia non soltanto terrà le fila dell’intera stagione teatrale 2014/2015, ma metterà in scena due opere, Sei personaggi in cerca d’autore e Vita di Galileo.
Signor Lavia, ha intenzione di inaugurare la stagione di prosa della Pergola con Sei personaggi in cerca d’autore: è un gesto che da più parti è stato definito simbolico. A cosa è dovuta la scelta?
Non la definirei una scelta simbolica. Ho fortemente voluto rappresentare Sei personaggi in cerca d’autore perché, per prima cosa, è un testo italiano ed è, senza dubbio, il più grande testo drammaturgico di tutti i tempi.
Addirittura.
Sì, insieme all’Edipo Re di Sofocle. Può sembrare strano, e questo dipende, a mio parere, dal fatto che il testo sia italiano, come se non accettassimo che è capitato proprio a noi. Invece sì, è così: è capitato a un signore siciliano, tale Pirandello Luigi, figlio di un proprietario di solfatara, uomo alquanto irascibile. Sembra strano, ma è così. È una lunga avventura alla quale vado incontro. Potrei dire altrettanto per quanto riguarda il mio impegno come consulente artistico della Pergola. Il teatro aveva bisogno di una nuova conduzione. Il sindaco, lungimirante, l’ha capito, e adesso siamo qui a cercare di fare del nostro meglio.
Vi concederete un margine d’errore minimo.
Non si tratta di un margine d’errore, speriamo soltanto di non sbagliare troppo. In filosofia, la vita dell’uomo si chiama erranza: nell’erranza non possiamo che errare. Chi ha le idee molto chiare, di solito, porta l’umanità alla rovina. Io non ho idee chiare, ma ho fiducia in tutti questi collaboratori che lavoreranno con me: sono animati da un amore per il teatro fuori dal comune. Abbiamo in mente un teatro diverso, un teatro come luogo aperto, nel quale ciascuno venga ad assistere alla rappresentazione di sé.
Torniamo a Pirandello. Con Sei personaggi in cerca d’autore l’autore sfida la presunzione del teatro convenzionale di rappresentare la vita.
Le confesso di aver letto molto a proposito de Sei personaggi in cerca d’autore. La vita, la forma, lo spazio…Certo, ci sono anche questi elementi, ma non sono loro a rendere grande l’opera. Sei personaggi in cerca d’autore è come il David, sono capolavori assoluti per i quali non servono spiegazioni. I sei personaggi sono anche un discorso sociale: è l’impossibilità della borghesia ad incarnare i veri motivi di disagio della storia dell’umanità. È un dramma universale, che mette in mostra la pupazzata, come diceva Pirandello, della vita stessa.
Da Pirandello a Brecht. “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”, scrive l’autore. Eppure, il tema del “Premio Pergola per la nuova drammaturgia” è proprio l’eroe. Qual è il suo rapporto con la parola eroe?
Ho un rapporto molto familiare con la parola eroe. La mia generazione, in questo paese, non ha visto eroi, forse qualche martire. Per me l’eroe era mio nonno, che ci raccontava la storia della Grande Guerra, o di mio padre che aveva combattuto il conflitto successivo.
In Galileo, nonostante l’abiura, c’è dell’eroismo?
C’è l’eroismo dell’uomo, l’eroismo dell’incapacità ad essere eroi. C’è la coscienza di non essere grande. Eppure, devo ammettere, Galileo è eroico nel comprendere che la verità si può conquistare solo a condizione della libertà. La filosofia insegna che l’essenza della verità è la libertà.
Eppure, nonostante questa premessa, il testo fu accusato di essere anticlericale.
Non credo che la Vita di Galileo sia un testo anticlericale, è piuttosto la storia della Chiesa ad essere anticlericale. Vita di Galileo è piuttosto la storia di un uomo che ha un grande nemico: la menzogna. Oggi siamo circondati dalla menzogna: persino internet è una menzogna. Si pensi alla parola stessa, rete: nella rete si rimane impigliati, per quanto l’apparenza la possa rendere utile. Ogni verità, ci dice il testo, non è assoluta, ogni epoca ne ha una propria. È Galileo a dirlo: “Ogni epoca ha la sua verità”. Mi pare un insegnamento non da poco.
L’abiura con cui Galileo rinuncia alla divulgazione delle sue scoperte scientifiche gli permette, però, di dedicarsi privatamente alla stesura di nuove opere, colonne della scienza moderna. Si tratta di una sorta di compromesso. Lei ha mai dovuto rinunciare pubblicamente a qualcosa che avrebbe, poi, portato avanti da solo?
Non ho mai abiurato, anche se, qualche volta, avrei dovuto, probabilmente. No, non l’ho mai fatto: non ho il talento del paraculismo. Non ne sono capace, purtroppo, ma è un mio difetto: da paraculi si vive meglio.
Un’ultima domanda. Lei ha da poco concluso l’esperienza di Lavia dice Leopardi, e presto si cimenterà nella lettura de Il deserto dei Tartari, di Buzzati. Il verbo dire rimanda ad un’esperienza intima, lontana dalla recitazione. Come concilia le due dimensioni?
Io sono un seguace della tradizione ellenica: per me la poesia si dice. Anzi, per i greci la poesia era detta, cantata e danzata. Alcibiade studiava da attore, era bravissimo nel suonare la cetra, aveva una bella voce e recitava rigorosamente a memoria. Oggi va di moda questo scempio del reading: impedisce all’attore di fare ciò che l’attore è, così come impedisce all’uomo di usufruire del proprio corpo. Il corpo dev’essere reso il primo strumento del poetare: leggendo è impossibile farlo.
Diversi suoi colleghi hanno un’opinione differente dalla Sua.
Penso che non sappiano neppure di cosa parlano.