Teatro stabile di Genova – Compagnia Gank; Interpreti: Tullio Solenghi (Antonio Salieri), Aldo Ottobrini (Mozart), Arianna Comes (Constanze Weber), Davide Lorino (Giuseppe II imperatore d’Austria), Andrea Nicolini (Herr Direktor), Roberto Alinghieri (barone Fuga), Elisabetta Mazzullo (Venticello). Regia: Alberto Giusta. Scene e costumi: Laura Benzi. Luci: Sandro Sussi
Come non provare immediatamente simpatia e tenerezza per quel vecchio, sedia a rotelle e coperta sulle gambe, che sceglie proprio noi come confessori. Perseguitato da grandi mostri del passato, invoca le ombre del futuro, pure perché ancora non hanno peccato, perché ancora non hanno ucciso.
Salieri bambino avrebbe di certo scelto Dio come suo confessore; a Dio onnipotente avrebbe volentieri donato l’intera vita, in cambio di essere riconosciuto, e poi anche ricordato, come un grande compositore. È sincero, schietto, persino umile nell’ammettere la sua mediocrità e la tenace volontà di avvicinarsi quanto più possibile alla gloria eterna tramite la musica che Lui gli avrebbe concesso di comporre.
Con Salieri patiamo l’ingresso in scena, e nella Vienna del Settecento inoltrato, di Wolfgang Amadeus Mozart. Finora abbiamo conosciuto l’estremamente umano, adesso incontriamo il genio, e ne restiamo affascinati. La distanza tra i due personaggi è quanto mai lampante sulla scena.
Dato che Dio non si può comprare con scambi “alla pari”, assistiamo all’evoluzione dell’odio, che da germoglio diventa tanto forte da impossessarsi del nostro Salieri il quale, però, non perde mai il contatto coi suoi confessori. Contempliamo il fondale della scenografia che proietta la sua interiorità, le emozioni, la tenacia, e un’ombra di follia. La complicità tra noi e lui cresce, finché diventiamo testimoni del solenne giuramento, fatto da Salieri a Salieri stesso, e a Dio: distruggere il Genio e restare il favorito almeno in terra, se oramai non è più convinto di poter essere il migliore. Resosi conto di non poter annientare Mozart definitivamente, poiché sa bene che la sua musica giungerà immortale fino a noi, tenta allora di annientare se stesso. Come non comprendere, ancora, la rabbia verso se stessi, verso qualcosa che non si può controllare o cambiare, la frustrazione, e l’invidia verso qualcuno di cui riconosciamo l’effettiva grandezza. Per tragica ironia della sorte o per sua capacità e conoscenza – ritorna continuamente la dicotomia divino/umano, imperscrutabile/progettabile – Salieri solo in tutta Vienna riconosce il divino che si manifesta nel mortale, l’elevazione del mediocre nella vita a musica mai ascoltata. Come non capire, senza, per questo, giustificare, questi umani sentimenti.
Compartecipiamo anche alle vicende degli altri personaggi, di cui gli interpreti riescono ad accentuare le sfumature, senza farli degenerare in macchiette. Arianna Comes è credibile soprattutto negli attacchi di disperazione e spaesamento da cui viene colta quando la miseria la travolge. E che brividi quando il tubare dei due sposini, Stanzy e Wolfy, viene elevato a sublime poesia nel canto di Papageno e Papagena. Questo Salieri lo sa bene.
Non convince molto, invece, il repentino cambiamento di Ottobrino; come un tempo il passaggio ai pantaloni lunghi sanciva l’ingresso del fanciullo nell’età adulta, così il suo Mozart perde, nel momento in cui si toglie la parrucca, a seguito di un altro deprimente mezzo successo, ogni sua puerile caratteristica. La buffa risata, l’entusiasmo prorompente, l’eccitazione, la gioia, ma anche le parolacce e le sconcezze con cui ci si era presentato scompaiono troppo velocemente perché gli si possa credere davvero.
Ho apprezzato la scelta di vestire i personaggi con costumi che ricordassero l’epoca originale: anche grazie all’affascinante testo, l’opera ci penetra senza bisogno, come si fa a volte, di modernizzare la scena per avvicinarla fisicamente a noi e al nostro tempo, col rischio di renderla spiritualmente lontana.