Dramma serio per musica che celebra la clemenza dell’imperatore romano Aureliano, testo di Felice Romani, musica di Gioachino Rossini.
Edizione critica Fondazione Rossini/Casa Ricordi, a cura di Will Crutchfield.
(12 Agosto 2014, prima)
Il labirinto della vita
Il piacere dell’ascolto inizia alle prime battute della Sinfonia, che è la stessa di Elisabetta Regina d’Inghilterra e de Il Barbiere di Siviglia, del quale troviamo altre memorie e precisamente: la musica della preghiera corale d’apertura “Sposa del grande Osiride” poi usata per la cavatina del Conte d’Almaviva “Ecco ridente in cielo”, quella della cabaletta marziale di Arsace “Non lasciarmi in tal momento” (Atto II) ripresa per la cavatina di Rosina “Io sono docile, son rispettosa”. Questi autoimprestiti da un’opera poco fortunata ad un’altra erano possibili grazie all’astrattezza della musica rossiniana (ben faceva il compositore a non buttare al macero tanta bella musica) e andavano ad inserirsi in un’architettura già ricca. Aureliano in Palmira ha tanta bella musica di suo: ampie melodie, accurate pagine corali, nuovi colori nella strumentazione, scrittura vocale fortemente caratterizzante. L’edizione critica, curata per la Fondazione Rossini da Will Crutchfield, ha reinserito molti recitativi che allungano l’opera di due atti a circa tre ore e mezzo.
Ed è stato proprio Crutchfield a dirigere l’Orchestra Sinfonica Rossini e il coro del Comunale di Bologna, preparato da Andrea Faidutti, sostenendo gli abbandoni sentimentali dei protagonisti, rispettando il clima preromantico delle ricche pagine corali, dando spazio alle voci solistiche degli strumenti, il corno in primis, che Rossini tanto amava e anch’io.
Ma il dramma è concentrato sui tre protagonisti, cui è riservata una scrittura vocale acrobatica; tenore, soprano e mezzosoprano devono mettere doti belcantistiche eccezionali al servizio del canto di coloratura. Michael Spyres e Jessica Pratt sono stati perfetti, Lena Belkina sarà perfetta quando avrà acquisito maggior spessore vocale.
Michael Spyres (scenicamente un autorevole e amorevole Aureliano) s’impone per voce solare di bellissimo timbro, sicura e possente in ogni registro anche nelle tessiture estreme, estesissima per passare da acuti luminosi (perfino un attacco in acuto lungo e tenuto nella cavatina “Cara patria“, accompagnata dal corno) a robusti affondi gravi seguiti da improvvisi sovracuti, duttilissima per sostenere la morbidezza del canto sensuale e amoroso e per lanciarsi in pirotecniche agilità di forza anche in gara con la Pratt e nelle fitte ornamentazioni dei pezzi di coloratura, la dizione è chiarissima, l’arte scenica magnifica. Ha la spavalderia e la potenza vocale di Rockwell Blake, in più Spyres è un baritenore.
Sulla stessa linea si pone Jessica Pratt (una biondissima Zenobia), i bellissimi filati anche rinforzati, la perfetta messa di voce, gli acuti robusti, i sovracuti finali tenuti, i trilli, i gorgheggi anche in sovracuto, le agilità di forza, i virtuosismi nella fitta coloratura, la pulizia del suono, la melodiosità della linea di canto, il cesello della frase, la dizione chiara fanno di lei una belcantista d’alto rango.
Nel duetto con Arsace in prigione (“Non ti lascio”, I atto) sopra un magnifico disegno orchestrale di bellissimo stile la Pratt spara uno strabiliante possente acuto; nel II atto, da austera regina in piedi su un cocchio, attacca il dolcissimo duetto con Aureliano (“Se libertà t’è cara”) con un acuto lungo rinforzato e sfoggia sovracuti stellari. Scenicamente è una vera regina.
Lena Belkina (en travesti negli abiti del guerriero Arsace, scritto per il castrato Velluti) è un mezzosoprano dal bel colore ambrato, ha voce estesa e potente in zona acuta, canta bene anche sdraiata ed interpreta con passione. Sostiene con buona tecnica i lunghi fiati e le ampie arcate nel duetto con Aureliano che è agilissimo e acutissimo, nella prigione ha qualche suono intubato nei gravi, ma il colore è bello e pastoso, buoni gli armonici. Brava nell’aria “Non lasciarmi in tal momento” con difficili scale discendenti e successive impennate acute. Col tempo lo spessore vocale aumenterà.
Raffaella Lupinacci (Publia con abito di foggia romana) è un buon mezzosoprano, che canta bene l’aria di sorbetto piuttosto impegnativa “Non mi lagno, che il mio bene”, a lei riservata.
Dimitri Pkhaladze (Gran Sacerdote) ha voce scura di bel colore ma un po’ impastata, pesante e poco estesa con conseguente difficoltà in zona acuta.
Il basso Sergio Vitale ha intepretato Licinio, il tenore chiaro acuto Dempsey Rivera Oraspe e Raffaele Costantini un pastore.
La particolarità di questa edizione è l’allestimento che a prima vista sembra scialbo, ma in itinere si è rivelato intelligente ed originale. Il palcoscenico occupato da un labirinto di teli trasparenti sapeva di minimalismo, ma simboleggiava il labirinto della vita e dei sentimenti, che, seppur privati, hanno sempre una certa trasparenza e visibilità. I teli avevano una loro mobilità e andavano a formare passaggi, corridoi, tende da campo, prigione e ambienti stilizzati che ospitavano gli amanti, il coro delle vergini, dei sacerdoti e dei guerrieri, perfino un gregge di caprette vere che giravano e brucavano l’erba in palcoscenico col loro pastore. Quello che non ho capito, ma mi è piaciuto, è l’ubicazione del fortepiano suonato da Lucy Tucker Yates e della viola da gamba suonata da David Ethève in un anfratto del labirinto. La regia era di Mario Martone, le scene di Sergio Tramonti, i costumi bellissimi e coloratissimi di Ursula Patzak, le luci di Pasquale Mari.