L’eterna lotta tra amore e ragione, tra destino ed arbitrio, tra coscienza e vendetta, avviluppata nel forte legame di interferenza tra il mondo dei sogni e la realtà; un dramma dell’indecisione, della fatalità, che è nelle mani degli uomini, non di un destino a loro superiore, ma da essi dipendente; un dramma del dubbio, di chi, come un equilibrista, cammina sul filo leggero della coscienza, scrutando giù, con un po’ di paura, gli abissi contraddittori della vita. La tensione emotiva viene creata dalla contrarietà dei sentimenti, non solo di quelli del padre, principale orchestratore dell’andamento della vicenda, ma presente in tutti i personaggi.
Un’atmosfera onirica, riportata con efficacia anche nella rappresentazione scenica, con luci colorate e musiche d’effetto, in cui ci si chiede se sia il destino ad imprigionarci o se invece sia la strenua credenza in esso, e le sue pratiche conseguenze, a far sì che si avveri.
In questa prospettiva ogni personaggio diventa causa passiva di ciò che accade a lui stesso e agli altri.
L’amore sembra essere l’ultimo figlio della ragione e, quando non sarà più solo vano tentativo di aggirare il destino, ma fondamento di convinzioni più ampie, riuscirà a combattere per essa.
Il sogno si lega alla vita e da essa ci slega. Sigismondo è circondato da corde, catene a cui si abbandona e si annoda, le stringe intorno ai polsi, si dispera. E dopo aver dato sfogo ad ogni ira, ogni rabbia, ogni sentimento, buono o cattivo, ma represso, dunque esplosivo e pericoloso, si trova a dire “Sono così perché ho scoperto chi sono” . E crescendo, all’improvviso, interiormente, acquisisce un’incredibile forza d’animo, finchè giunge a dichiarare una verità profonda in questo caso come mai: la soddisfazione più grande è vincere contro se stessi. Così, potendo e volendo sognare d’essere ciò che si è, queste corde tutt’intorno non sono più catene, ma Sigismondo vi si adagia e si dondola, come su un’altalena.
Uno spettacolo ben allestito, traboccante della fantasia tipica di “Quelli di Grock”, un’impostazione registica architettata con finezza espressiva da Susanna Baccari e Claudio Orlandini, e sorretta dall’importante, e spesso sottovalutato, lavoro di luci, musica e scenografia rispettivamente di Claudio Intropido, Gipo Gurrado e Maria Chiara Vitali. Le interpretazioni di Salvatore Aronica, Stefano Barra, Federica Bridda, Alessandra Gagliarde, Lucia Invernizzi e Giulia Scotti assicurano l’ottima resa di quest’opera, nonostante la curiosa e provocatoria scelta di usare attrici per ruoli maschili.