C’è qualcosa di tenero nella figura di Silvia Gallerano, completamente nuda di fronte al pubblico, in alto su di un piedistallo e illuminata da pochi fanali. Il suo nudo integrale, la pelle bianca, il suo modo di rivolgersi al pubblico sgranando gli occhi, la bocca e trasformando il suo stesso viso in una pluralità di espressioni sempre tirate, in tensione, qualcosa che lascia presagire che la calma delle sue parole, l’apparenza pacata del suo raccontarsi si trasformerà presto in un grido di invettiva. “La merda” di Cristian Ceresoli giunge a Napoli, al teatro Galleria Toledo, e si presenta fin dall’inizio come uno spettacolo potente, ricco nella scrittura, profondo nel contenuto e incisivo nella rappresentazione. Non è un caso che proprio questa triade di monologhi: “Le cosce”, “Il cazzo” e “La fama”, che rappresentano insieme “La merda”, abbiano scioccato il pubblico al Festival di Edimburgo 2012 e ricevuto il Fringe First Award for Writing Excellence, il The Stage Award for Acting Excellence e l’Arches Brick Award for Emerging Art.
Premi prestigiosi a cui si aggiungono le repliche sold out in tutta Italia. Se il nostro teatro stenta a crescere e ad uscire dalla crisi, ci fa tirare un sospiro di sollievo pensare che la nuova drammaturgia sia invece viva e capace di produrre idee vincenti. Certo sempre lontano dalla madre patria dove invece, impantanati in un meccanismo di lobby e opportunisti, i nuovi autori stentano ad emergere.
“La merda” ne è un esempio. Un monologo che cattura da subito l’attenzione della platea. L’attrice del resto è già sul palco quando il pubblico prende posto, impossibile non notare il suo nudo integrale, a cui ci si fa subito l’abitudine. Difficile non notare anche che il suo corpo non è da modella. Ma è proprio il desiderio di diventare famosa che muove il suo racconto. Silvia Gallerano è infatti una ragazza pronta a tutto per la fama, il suo desiderio di sfondare nel mondo dello spettacolo si erge a simbolo di un’intera umanità schiacciata dall’insicurezza e completamente soggiogata dal potere mediatico. Ma proprio quando si presenta l’occasione di un provino ecco che invece la vogliono grassa. E allora bisogna sacrificarsi, mangiare, ingurgitare per riuscire nell’obiettivo. Carismatica la metafora della digestione, si finisce per ingurgitare malessere e “defecare” l’angoscia.
Alla Gallerano il merito di dar forma alle parole sul palco, con solo la sua voce e la sua espressione a disposizione, senza la possibilità di muoversi liberamente, restando su quello sgabello alto nel chiaroscuro del palco con in mano un microfono, la sua voce rimbomba nella sala e cattura l’attenzione del pubblico portandola in un’unica direzione: il suo racconto a tratti comico, che sfocia in un urlo disperato e allo stesso tempo liberatorio.
Lo spettacolo è un’invettiva contro la contemporaneità, la crisi dell’individuo generata da quella società dei consumi che tutto ingloba e tutto espelle. Uno spettacolo che «ha come spinta propulsiva il disperato tentativo di districarsi da un pantano o fango, ultimi prodotti di quel genocidio culturale di cui scrisse e parlò Pier Paolo Pasolini all’affacciarsi della società dei consumi, quel totalitarismo ancor più duro di quello fascista poiché capace di annientarci con dolcezza».