In occasione dell’anniversario dei 100 anni dall’inizio della Grande Guerra i media (giornali, televisione, teatri) stanno dedicando un apprezzabile sforzo di memoria per ricordare l’assurdità, l’enigmatica e miserabile vicenda umana, la voragine che si è spalancata nel cuore d’Europa. Un evento fra i più sanguinosi della storia dell’umanità. Nei quattro anni e tre mesi di ostilità 10 milioni di persone hanno perso la vita e altri 20 milioni sono rimasti feriti. Dei tanti documentari televisivi, articoli e rappresentazioni teatrali, quella portata in scena al teatro Menotti è la più convincente (sicuramente la più originale), la più completa perché riesce a condensare in poco più di un’ora gli aspetti umani di questa tragica vicenda attraverso la musica, le canzoni e la lettura di testi di Delio Tessa, Carlo Salsa, Emilio Lussu, Enzo Jannacci, Boris Vian, Corrado Alvaro “riuniti” in un modo singolare grazie alla creatività di Emilio Russo. La partecipazione emotiva degli spettatori è moltiplicata dalla grandissima bravura di Marco Balbi e Alarico Salaroli che attraverso le grandi capacità vocali e interpretative (recitazione e canto) hanno affascinato e commosso gli spettatori che, in un numero necessariamente limitato, erano con loro seduti intorno ad un grande tavolo. Parole, musica e canzoni e spezzoni di film che testimoniano la sofferenza fisica e morale cui erano sottoposti i nostri soldati e gli “altri” (quelli che chiamavano nemici). Sofferenza fatta di fatica, paura, privazioni, freddo impastati nel ricordo struggente della vita che c’era e che probabilmente non tornerà. Delio Tessa nel suo straordinario poema Caporetto 1917 – “L’é el dì di mòrt, alégher –” rivive nella sua Milano la tragedia di ragazzi obbligati a combattere una guerra che non capiscono, che non sentono. Milano è una città in fermento vista con gli occhi di chi dichiara di avere «lo stupido vizio» di ammirarla e, al tempo stesso, di “viverci dentro come in una fogna”.
“Quella di Tessa è una dissacrante poesia in meneghino nella quale il dialetto diventa lingua della ribellione, una poesia arrabbiata che racconta l’assurdità della guerra, la pietà, la sofferenza, la disperazione dei dissidenti e la scontentezza del vivere in una società, quella dell’Italia fascista”. L’opera di Tessa infatti ha il suo centro nell’idea ossessiva che «la cosa più interessante nella vita è la morte.
Gli stessi attori suonano e cantano le tristi e struggenti canzoni con l’ausilio dell’ottimo Alberto Faregna alla fisarmonica e la loro prossimità col pubblico (seduti gomito a gomito) crea un atmosfera di complicità , di partecipazione emotiva con venature evidenti di commozione. La regia curata da Emilio Russo e Caterina Spadaro fa girare il meccanismo drammaturgico alla perfezione. Funzionale il servizio luci di Mario Loprevite e molto apprezzati gli arrangiamenti delle musiche di Alessandro Nidi. Potremmo chiudere qui ma ci corre l’obbligo (repetita iuvant) di partecipare, assieme a tutti gli spettatori, all’applauso più caloroso e meritato nei confronti degli straordinari Marco Balbi e Alarico Salaroli.
PS Un’altra trovata geniale è stata quella di offrire al pubblico, in tema con la guerra di trincea, il “rancio”: un minestrone servito in una sorta di gavetta e un (anche più di uno…) bicchiere di vino.