Per capire il valore di questa pièce è necessario entrare nel mondo di Testori, nella sua angoscia esistenziale, nella sua religiosità vissuta in un continuo arrovellarsi di domande. Poliedrico artista perennemente insoddisfatto, contorto, mai in pace con se stesso, sempre alla ricerca di nuove forme espressive. Anche nella produzione teatrale Testori non segue mai la falsariga, odia la coerenza (borghese), ama la sperimentazione. Testori è costantemente alla ricerca di un linguaggio estremo. Il suo è un teatro di denuncia. Testori si è schierato dalla parte del linguaggio dialettale, collegandosi alla tradizione letteraria in dialetto, come legame al popolare come strumento di una“discesa antropologica e psicologica all’origine della propria terra e delle proprie radici”. Il suo è un teatro di parola, come fulgida qualità carnale, insomma la parola è tutto. Anche in questa riduzione e adattamento teatrale operato dalla regista Daniela Nicosia del romanzo “Passio Laetitiae et Felicitatis” Testori usa la parola come corpo e come azione, fa della parola strumento per entrare nell’anima dei suoi personaggi che vivono in un mondo di sofferenti, emarginati immersi nella dialettica sacro e peccato, vita e morte, osceno e ascesi. amore e dolore, speranza e ignoranza. E tutte queste contraddizioni vengono espresse con una lingua magmatica, espressionista, in una sorta di grammelot che ha come base il dialetto brianzolo contaminandolo con neologismi, latinismi e francesismi. Linguaggio di straordinaria forza comunicativa, invenzioni linguistiche che, che al di là della comprensione semantica (per noi di facile accesso) ha valore per sé, universale. Il dialetto è l’unica voce con cui i suoi personaggi possono veramente esprimere la propria disperazione, adattandosi alle torbide tematiche trattate. La protagonista è Felicita (è sintomatico che l’accento non cada sulla ‘a’), ragazza che vive in un paesaggio umano pregno di miseria, di solitudine, è dominata dall’esigenza di amare. Il rapporto col fratello diciottenne è carnale al limite dell’incestuoso, ma l’intenso autentico rapporto si interrompe con la morte del giovane. Felicita, sconvolta cerca di riempire la solitudine e l’urgenza di amare rivolgendo il suo amore corporale intenso e mistico a Cristo crocefisso che calato dall’alto domina la scena. Felicita identifica Cristo col fratello e decide di prendere i veli. Ma, in convento, l’oggetto della sua passione tenera e sensuale è rivolto alla giovane novizia Letizia. Finalmente Felicita mette l’accento sulla ‘a’, ma la felicità dura poco e, appena sbocciato, finisce tragicamente. I bravissimi interpreti sono due fratelli nella vita oltre che in scena: Maddalena Crippa nelle vesti di Felicita e Giovanni in quelle del narratore, perfetti nei toni, nelle pause e nella misurata gestualità riescono a dare respiro e corpo alle parole di Testori ed esaltare questa intensa storia di carne, morte e religione.Belle nella loro semplicità le scene di Gaetano Ricci, funzionali le musiche e il disegno luci di Stefano Mazzanti e Paolo Pellicciari e i costumi di Silvia Bisconti.