Difficile sfidare un mostro sacro come “Arancia Meccanica” di Anthony Burgess, un libro cult, il romanzo distopico per eccellenza, al pari di 184 di George Orwell (con il quale ci sono molto punti di contatto).
Difficile la sfida con l’opera letteraria? Ancora più difficile la sfida con il famosissimo film, l’Arancia Meccanica di Kubrick.
Eppure la regia di Grabriele Russo ti inchioda alla poltrona per un’ora e 40 minuti. Tu hai letto il libro, hai goduto anche della magnifica trasposizione cinematografica.
Nonostante questo, non ti muovi, sei travolto dalla storia. Forse, anzi – e questa è la magia assoluta del teatro – la vedi per la prima volta.
Dopo tanti blasonati rimake in salsa tragico classica filosofica filologica, finalmente il teatro si fa interessante.
Contemporaneo, nel senso più vero e profondo del termine.
Russo si porta a casa una serie di standing ovation.
A partire dal coraggio per aver ritrovato nel testo un momento di riflessione politica e umana.
Poi, in ordine: la musica: Morgan è straordinario. La musica è sublime, poetica, distruttiva, disturbante.
In scena si compie la perfezione: mai una banalità, mai un luogo comune. Anzi, dalla frase in neon bianco: “Il latte te lo do io” con l’occhio del grande fratello che lampeggia ( che più esplicita di così la posizione del regista non si poteva), alle sfere – tette di latte che scendono dal cielo e che i “drughi” e il loro leader Alex si fanno in vena; alla scatola – casa che avvicinandosi al pubblico crea magicamente l’effetto zoomata cinematografico.
E ti pare di essere là, attore e regista del crimine. Perché ogni atto violento è sempre una deriva sociale, e la responsabilità è collettiva.
Potentissimi i movimenti rallentati degli attori mentre si compie la violenza dello stupro. E poi la terribile grottesca cura Ludovico che è la chiave di volta della storia e che raddrizza e reindirizza la lettura del testo.
La scena finale è un capolavoro: Alex ritornato sano, ovvero il caro vecchio violento Alex, sale al cielo, come un Gesù Cristo.
A rafforzare il senso profondo di ogni rito ascensionale è il corpo manichino di gesso dello stesso Alex che precipita dall’alto.
Un corpo fatto a pezzi. Fatto a pezzi il corpo di Cristo, del capro espiatorio per eccellenza. Fatto e pezzi e pronto per essere sbranato: prendete e mangiatene tutti.
Un colpo da maestro.
Notevolissimo l’uso del linguaggio, uno slang pieno di metafore roboanti, non sense, parole in assenza di senso compiuto eppure comprensibilissime. Altro miracolo: la violenza è il linguaggio universale. Ci vuole coraggio per dirlo. E dirlo così bene è da grandi.
Lo spettatore è travolto all’inizio da un recitato quasi urlato e dalla musica a tutto volume che ha l’unico scopo, memori della cura Ludovico, di alzare l’attenzione, di disturbarci, di metterci a disagio.
Una volta raggiunto lo stato d’allerta sei pronto a succhiare anche tu il latte più. O meglio, già lo fai, lo facciamo tutti. Questo il nodo cruciale.
La violenza è nell’uomo. Metterla in circolo per trane vantaggio è quello che fa il sistema.
Il sistema però la può anche guarire, spostarla verso altri obiettivi.
Così esci dal teatro che non sai più se sia meglio il bene o il male.
Ti chiedi se sei anche sia davvero in mano a burattinai folli che per l’economia dei loro tornaconti ti programmano a loro piacimento.
Nessuno si salva: né lo scrittore, né il prete, né il ministro, tanto meno gli sbirri e gli scienziati.
Tutti figli della stessa violenza, solo, con potenti “protettori” complici, pronti ad occultare loschi interessi nascondendoli dietro a presunte opere di bene.
Aleggia nell’aria una sola domanda: la libera scelta, esiste?
Uno decide di essere buono o lo si fa diventare buono?
Se lo si costringe – con che metodi, poi? – abbiamo agito, corrotto il suo libero arbitrio o abbiamo redento il male?
Scavando ancora: esiste il libero arbitrio?
O siamo tutti soltanto delle Arance Meccaniche?