Versione italiana: Nadia FusiniRegia: Andrea De RosaAdattamento: Andrea De RosaInterpreti principali: Giuseppe Battiston, Gennaro Di Colandrea, Giovanni Franzoni, Giovanni Ludeno, Elisabetta Valgoi, Martina Polla, Andrea Sorrentino, Annamaria Troisi, Elisabetta Valgoi, Marco VerganiScene e costumi: Simone ManninoLuci: Pasquale MariProduzione: Fondazione del Teatro Stabile di Torino | Emilia Romagna Teatro Fondazione
Il Falstaff in scena al Teatro della Corte di Genova è uno spettacolo indubbiamente “contemporaneo”, probabilmente troppo per gli abitué del Teatro Stabile, avvezzi all’ottocentesco modo di rappresentare i grandi autori. Falstaff è personaggio classico e, ciononostante, sempre riproponibile perché lo capiamo ancora. E che cosa è un “classico” se non un’opera la cui vera essenza resta intatta, anche se maltrattata?
In questo Falstaff sono presenti alcune imprescindibili caratteristiche del teatro contemporaneo. Lo spazio scenico viene ridefinito: vediamo gli attori disporsi su più livelli nella scena e non entrare solamente da dietro le quinte. Non è rappresentata un’opera, ma bensì viene presentato un personaggio di creazione shakespeariana, Falstaff appunto, estrapolato dalle opere in cui lo abbiamo incontrato. La traduttrice Nadia Fusini e la regia lo hanno esplorato da diverse angolazioni, costruendolo non solo sulla base dell’Enrico IV e dell’Enrico V, ma anche del Falstaff di Arrigo Boito musicato da Giuseppe Verdi e del film Falstaff. Campane di mezzanotte, firmato da Orson Wells nel 1965. Altri testi ancora, estratti da Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche e Lettera al padre di Franz Kafka, che esplorano i temi del rapporto col padre, con se stessi, con Dio e col dio Corpo, compaiono nel corso dello spettacolo accennando appena i suddetti temi.
Inizialmente conosciamo il grasso, godereccio e anche simpatico sir alla corte inglese. Attorno a sé, egli calamita una colorita schiera di personaggi dalla scarsa o completamente assente moralità, per questo molto simili a lui; ed è grande prova di tutti gli attori.
Dal momento in cui Falstaff parte per la guerra, scompare quasi del tutto anche dallo spettacolo che porta il suo nome. E il ritmo cambia, lunghi monologhi prendono il posto di battute, scherni e risate, la leggerezza lascia il posto al peso della responsabilità e al pentimento. È, dunque, sbagliato vivere venerando il proprio corpo? Un erede al trono deve per forza comportarsi come tale? I vecchi devono essere un esempio per i giovani o possono comportarsi come più gli pare e piace? Non è chiaro il messaggio proposto, a prescindere da quale idea di moralità si abbia. E lo spettacolo ci parla di Falstaff come contenitore di passioni e debolezze umane, racconta per brevi cenni la storia dell’Enrico IV e del V, o del controverso rapporto tra padre e figlio? Forse di tutto questo, ma non è chiaro.
Contemporanea è la scelta del nudo, che deve sempre porre la domanda sulla sua necessità, e dell’utilizzo del microfono che supporta la voce, e la aiuta nel divenire strumento che avvicina pubblico e attori. Maestosa la scenografia: in pochi attimi le scene possono cambiare, sollevate da potenti macchine, e che pugno allo stomaco quel grosso pupazzo che si gonfia. Man mano che cresce prende la forma di un seno (uno dei diversi che Falstaff aveva amato), poi di tante mani, tante dita fino a che non incombe l’enorme volto di un Falstaff vecchio, quando ormai quello vero è morto, senza neppure essersene accorto.