Il sipario del Teatro Verdi di Firenze si apre con una battuta, una gran risata del pubblico, un uomo in pantaloni e camicia ed una scenografia minimalista.
Cinque fra cubi e parallelepipidi di dimensioni diverse, disposti sul palco: sono i cassetti della nostra memoria, nei quali nascondiamo alcuni ricordi, perché non tornino più a tormentarci, oppure dai quali, invece, i ricordi li attingiamo, per condividerli con le persone a cui vogliamo bene. Questo spettacolo è la dimostrazione di affetto da parte di Giuseppe Giacobazzi per quel pubblico che gli ha sempre manifestato stima e gratitudine.
Giacobazzi insegna uno dei suoi “modus vivendi”, che è quello di credere nelle persone; credere in coloro che si adoperano per realizzare qualcosa di positivo nella vita di un’altra persona, in modo tale che essa si senta speciale e consideri speciale a sua volta la persona che l’ha resa tale: due persone speciali, un pizzico di buona volontà e tanta buona vita per tutti. Ecco la ricetta della felicità.
Ed ecco cosa lui ha realizzato per i suoi spettatori: li ha fatti sentire speciali.
Li ha resi partecipi della sua vita personale, ha riso con loro, ha aperto per loro una finestra sul suo io, sulla vita, sui suoi problemi e sulle sue vicissitudini; un’apertura sull’uomo più che sull’artista, sulle esperienze che lo hanno formato e plasmato, che hanno costruito il suo carattere, la sua personalità, e sulle prove che ha dovuto affrontare. Come lui stesso ci ha riferito in una recente intervista, la sua vita non è poi così diversa da quella delle persone comuni, anzi fondamentalmente è molto simile, ed è anche questa umiltà e disponibilità che probabilmente ha richiamato interesse e curiosità, poiché il pubblico si rivede nei suoi racconti, poiché rappresentano tasselli di un’epoca e di una generazione.
L’adolescenza passata al bar, fra spacconate e grandi compagnie, l’arrivo nella grande metropoli, i primi amori, il lavoro nella moda, nel dietro le quinte delle grandi sfilate, fino alla possibilità di dedicarsi completamente alla televisione ed al teatro, alla propria passione, un sogno diventato reale proprio grazie al pubblico seduto in sala che fedelmente lo segue. Ed è proprio a questo pubblico che l’uomo Andrea Sasdelli (vero nome di Giuseppe Giacobazzi) rivela il suo intimo, personale e difficile iter intrapreso per diventare genitore. Un tema “spinoso” trattato magistralmente, con leggerezza ma non con superficialità, con umorismo e con serietà, creando un bel momento di condivisione e di aggregazione.
Una lucida analisi, quindi, su quello che è stato, che è, e che forse sarà, svelando qualcosa dell’uomo piuttosto che sull’artista.
Sempre artista, comunque, rimane, ed uno di quelli che fa della semplicità e della genuinità i suoi “cavalli di battaglia”: due ore e un quarto di risate e comicità, un monologo spassoso, personale, incisivo e toccante in alcuni momenti; uno spettacolo prodotto da “Ridens” e, per la prima volta scritto in collaborazione con un altro autore, Carlo Negri, il primo con il quale Giacobazzi, in venti anni di carriera, sia riuscito a trovare il giusto feeling, la stessa sensibilità ed un modo di vedere la vita e ciò che la circonda, in maniera affine.
Per il finale, un gran regalo per il pubblico: il comico si trasforma in cantante, e sulle note de “Il cielo” di Renato Zero, leitmotiv della sua vita, si congeda dal pubblico, entusiasta ed un po’ triste nel constatare che quelle due ore sono volate via in un lampo.