Sono passati centodieci anni dalla prima messa in scena de “Il Giardino dei Ciliegi”, di Anton Čechov, rappresentato a Mosca nel 1904 sotto la direzione del grande maestro Stanislawski.
Sono passati dieci anni, invece, dal tragico incidente che a Firenze, nel novembre del 2004, ha strappato con violenza Elisabetta e Mariachiara Casini alla vita ed alla loro madre, Doretta Boretti. L’opera di Čechov rientra così nel progetto del decennale del ricordo di queste due ragazze: un progetto che ha visto la nascita di numerosi eventi in questo mese, comprendenti rappresentazioni teatrali, celebrazioni, mostre e la premiazione del concorso “Premio di tutte le arti per riportare la vita nelle famiglie, nei luoghi pubblici, sul lavoro, sulle strade della nostra meravigliosa Italia” legato alla Fondazione Onlus nata in nome delle due giovani, per educare all’amore ed al rispetto della vita.
La rappresentazione de “Il Giardino dei Ciliegi” è stata fortemente voluta dal regista, Patrizio Fabbri Ferri, il quale ha desiderato che la parte della protagonista, Ljubov (Ljuba) Andreievna, fosse impersonata proprio dalla stessa Doretta Boretti.
Nonostante sia stata ideata e scritta come una commedia (vi sono diversi elementi umoristici all’interno), questa pièce è sempre stata diretta come una tragedia, ispirata ad alcune vicende personali della vita dell’autore stesso, che ha vissuto questi eventi finanziari e domestici da bambino, e che sono sempre rimasti impressi nella sua memoria.
La vicenda ruota attorno al tentativo di una famiglia aristocratica russa di conservare la propria tenuta, ed in particolare il grande giardino dei ciliegi, scenario di ricordi fanciulleschi e rappresentazione dell’infanzia e di una vita ormai passata. Tuttavia, gli sforzi sono vani, la proprietà viene comprata da un ricco commerciante che la dividerà in lotti ed appartamenti, e viene abbattuto anche il giardino, che diventa un simbolo di tristezza e rimpianto per la fine di determinate situazioni e per il passare del tempo in generale.
Nella rappresentazione messa in scena da Fabbri Ferri, il giardino è reso vivo e “visibile” al pubblico attraverso la parola e i sentimenti degli attori, così come altri oggetti immaginati dai vari protagonisti e da loro resi reali, in una scena dominata dal bianco, quale simbolo di purezza e di protezione dal mondo drammatico della vita.
Si insiste sugli effetti che i cambiamenti sociali hanno sulle persone, sull’incapacità di saper reagire ed affrontare i problemi, sul tema ancora attuale delle dinamiche socio-economiche, del progresso, della nuova mentalità dell’arricchimento a tutti i costi, che prevalgono sull’idealismo, sull’amore, sui valori e le virtù, lasciando ad ognuno di noi un punto interrogativo sul senso ultimo delle cose. La Natura (la madre), è vinta dall’orgoglio e dalla bramosia dell’uomo che nella vita ricerca cose che in realtà sono solo polvere, e dentro di Lei rimane solo un tormento, come una ferita profonda, che non l’abbandonerà mai. La fiducia nel futuro, nonostante tutto, non abbandona il palcoscenico, né il pubblico in sala, poiché l’addio può rappresentare l’inizio di una nuova vita, di nuovi amori e un insegnamento da portare sempre con sé, come sottolinea la canzone di chiusura, “Gracias a la vida”, di Violeta Parra, che riconduce ad una visione positiva del mondo.
Poco importa che gli attori fossero o meno professionisti; la loro voglia di comunicare un messaggio di fiducia, di esprimere la loro solidarietà ad una causa importante quale il problema sociale delle morti sulla strada, la loro intenzione di lanciare un messaggio di speranza, colpisce tutto il pubblico, che torna a casa con più fede e con lo sguardo rivolto al cielo.