La scena è bianca e attraversata da crepe. Fin dall’inizio si mostra al pubblico un mondo in decadimento. Un bianco che sa di morte ma soprattutto di “stasi” quello de “Il giardino dei ciliegi” che Luca de Fusco ha presentato durante il Napoli teatro festival e che ripropone come primo spettacolo del Teatro Mercadante, di cui è direttore. L’ultima delle commedie di Anton Čechov, scritta nel 1903 fu rappresentata per la prima volta nel 1904, ma non come una commedia bensì
come una tragedia, sotto la direzione di Stanislavskij e con il disappunto dello stesso Čechov.
Appena sei mesi dopo la rappresentazione il drammaturgo morì di turbercolosi.
La storia è quella di una famiglia aristocratica, guidata da Ljuba, e del suo malinconico ritorno da Parigi nella tenuta che ha accumulato negli anni solo debiti. Di fatti l’amato giardino dei ciliegi, completamente bianco nei mesi invernali, andrà all’asta, verrà venduto come terreno edificabile nell’indifferenza generale. Ad accogliere il pubblico, all’apertura del sipario, sono i servi sdraiati sulla scena, in un’atmosfera sospesa, attendono i loro padroni intravedendoli da lontano.
È proprio questo clima di sospensione a farsi caratteristica di una trama che non si sviluppa, anzi resta immobile. I protagonisti sono aristocratici che “hanno sperperato il patrimonio in caramelle” o che sono “morti di champagne”, il mondo stava cambiando intorno a loro ma i cambiamenti non toccano minimamente i personaggi, che preferiscono danzare a suon di valzer, dare feste, accumulare debiti. Del resto è emblematica la battuta del cameriere Firs “la vita è passata, e io… è come se non l’avessi vissuta”.
Nelle due ore e più di spettacolo i personaggi sono sospesi tra un passato irrecuperabile ed un futuro incerto, senza la minima preoccupazione del presente. Le musiche malinconiche scandiscono le fasi della messa in scena ed elementi del passato e dell’infanzia ritornano in un gioco: mentre Lopachin espone per l’ennesima volta la situazione della tenuta, Ljuba e il fratello Gaev sono intenti a giocare con due trottole. Suggestiva questa scena insieme al finale in cui i protagonisti si gettano dal muro della tenuta, un’uscita di scena che è anche un volontario straniamento, un sentirsi fuori da quel mondo.
Destano perplessità però alcuni elementi nell’allestimento di De Fusco. In primis il voler inserire il napoletano in bocca ai personaggi (giustificato a detta del regista con il voler vedere in quell’aristocrazia immobile lo stesso immobilismo della classe dirigente meridionale), ma anche e soprattutto la recitazione degli stessi attori, non sospesa o gelida come suggerirebbero le tematiche della commedia, ma bensì rancorosa in alcuni tratti o “infantile” nella protagonista. Ed in ultimo elementi come le proiezioni dei protagonisti, i giochi video, il dualismo della scena nell’ultima parte, tra l’attore vero e l’attore proiettato. Un artificio volto a stupire ma che risulta una sorta di forzatura. Gli elementi simbolici scelti stridono quindi con un finale in cui gli addii dei personaggi sono ingigantiti.
Con Gaia Aprea (Ljuba), Paolo Cresta (Jaša), Claudio Di Palma (Lopachin), Serena Marziale (Dunjaša),Alessandra Pacifico Griffini (Anja), Giacinto Palmarini (Trofimov), Alfonso Postiglione (Pišcik), Federica Sandrini (Varja), Gabriele Saurio (Epichodov), Sabrina Scuccimarra (Šarlotta), Paolo Serra (Gaev), Enzo Turrin(Firs)
scene Maurizio Balò
costumi Maurizio Millenotti
luci Gigi Saccomandi
coreografie Noa Wertheim
musiche Ran Bagno
produzioneTeatro Stabile di Napoli, Teatro Stabile di Verona