Mettere in scena Dostoevskij è un’impresa ai limiti dell’impossibile. La Compagnia Orsini e il regista Pietro Babina hanno, però, trovato il modo di estrarre da una delle opere più famose dell’autore russo un brano pregno di significato e di valore suggestivo e di riproporlo sul palco, con un’interpretazione del testo inevitabilmente soggettiva. Un Ivan Karamazov (Umberto Orsini) invecchiato ed estrapolato dalle vicende del romanzo racconta il suo libro mai scritto, in cui immagina che Gesù Cristo torni sulla terra nel periodo della Grande Inquisizione, a Siviglia, e che venga riconosciuto e adorato dal popolo, accusato e fatto imprigionare dal Grande Inquisitore. Si affrontano così i temi fondamentali da sempre legati alla religione, la Fede e la Libertà, la prima intrappolata in una stanza che sfida la perfezione geometrica, nella forma di un’insegna che stenta a rimanere accesa, la seconda come un enorme lenzuolo bianco che crolla all’improvviso addosso all’uomo, senza lasciargli il tempo di afferrarla e comprenderla. Nella prima parte dello spettacolo Umberto Orsini e Leonardo Capuano si inseguono sulla scena con movimenti a tratti speculari, a tratti contrastanti, uno l’alter ego dell’altro, piegando alla loro relazione gestuale anche le gli effetti di luci e suoni, e riempiendo così il tempo scenico –per niente trascurabile- che va dall’apertura del sipario alla prima parola pronunciata. Ma anche il dialogo che di punto in bianco sorge tra i due, arrancato ma urlato, come tutte le controversie interiori, risulta quasi ingabbiato in una simbologia che lo spettatore non ha gli strumenti per conoscere, o al massimo può intuire avendo letto I fratelli Karamazov. Nel dialogo dostoevskijano tra Ivan e Aleksej, è proprio il confronto tra i due fratelli che rende viva la figura del Grande Inquisitore, la fa uscire dal romanzo nel romanzo e la cala nella realtà, come incarnazione dei dubbi nichilisti di Ivan. Nella rivisitazione drammaturgica di Babina, Capuano e Orsini è il monologo epesegetico in forma di moderna TED Conference, che occupa la parte finale dello spettacolo, a riprendere più fedelmente il testo e a rivelare il significato intrinseco dello scontro scenico iniziale. Interrogandosi sull’ingiustizia delle sofferenze degli innocenti, Ivan e, attraverso di lui, Dostoevskij, arrivano a una riflessione sulla condizione dell’uomo come sopravvalutato da Dio, che gli ha donato una libertà che egli non è capace di governare e che lo spinge alla ricerca di costrizioni e totalitarismi cui sottomettersi. Il Grande Inquisitore imputa a Gesù Cristo e alla sua disavveduta scelta di donare la libertà all’uomo la perdizione del mondo, e si presenta come membro di una Chiesa che si è imposta come la guida che Dio non ha saputo mandare agli uomini, deboli ribelli le cui coscienze hanno bisogno di inchinarsi a Qualcuno che le sfami col pane vero e non con quello celeste, che le affabuli coi miracoli prima che esse si lascino affabulare dai maghi e dalle fattucchiere. Scrive Dostoevskij: “Tu non scendesti dalla croce quando Ti si gridava, deridendoti e schernendoti […] perché una volta di piú non volesti asservire l’uomo col miracolo, e avevi sete di fede libera, non fondata sul prodigio. Avevi sete di un amore libero, e non dei servili entusiasmi dello schiavo davanti alla potenza che l’ha per sempre riempito di terrore. Ma anche qui Tu giudicavi troppo altamente degli uomini, giacché, per quanto creati ribelli, essi sono certo degli schiavi.” E quella di essere schiavi, schiavi ingenui e impotenti, è certo la sensazione che coglie subito lo spettatore, ancora all’oscuro del disegno superiore, che sia quello divino o quello della magia teatrale.