Il sultano Shāhrīyār, per vendicarsi dell’infedeltà della prima moglie, che senza pietà alcuna ha mortificato il suo nobile animo, dimentica princìpi e morale e, nel vortice di una crudeltà senza rimedio, uccide le spose alle quali si congiunge non appena la prima notte di nozze volge al termine. Fortuna vuole che Sharāzād, figlia del Visir, abbia un’idea per porre fine alla strage e salvare, così, la vita a chissà quante altre donne. Dopo essersi offerta in sposa al sultano, infatti, la bella Sharāzād comincia a raccontare all’uomo una lunga serie di storie, l’una incastonata nell’altra, in un sapiente gioco di scatole cinesi. Il sultano, per ben mille e una notte, non fa che ascoltare, tace, si direbbe che penda dalle labbra di Sharāzād, e così dev’essere, perché, giunto alla fine di questo infinito narrare, le rende salva la vita e rinuncia alla sua legge disumana. Ne Le mille e una notte messo in scena da Maria Grazia Cipriani, in primo luogo, la parola è bandita, la moderna Sharāzād soffre di un dolore che non sa e non vuole prendere corpo, se non in una primordiale sofferenza, fatta di urla e sangue, dolore e follia. Dal canto suo, lo stesso sultano non pare disposto a concedere un tempo infinito a Sharāzād, queste mille notti che il titolo suggerisce. Al contrario, la sua rabbia è tale che non esiste lingua che possa esprimerla: le sue parole sono versi, guaiti, grida, eppure tanto basta a comprendere la portata della sua furiosa collera. Ad ogni modo, si perda presto l’illusione che la Compagnia in scena al Teatro Cantiere Florida abbia portato sul palcoscenico la lontana vicenda orientale, ché la protagonista ha tutti e due i piedi ben piantati nel presente, ancorché questo le sia ostile e, in definitiva, fatale. Il tema de Le mille e una notte è un pretesto, il motivo di apertura e chiusura dell’intero spettacolo, ma ben poco ha a che fare con questo spettacolo che fa di continue allusioni letterarie e mitologiche il filo rosso del suo narrare. L’intenzione di denunciare la tragica realtà del femminicidio passa attraverso la solitudine di Elsa Bossi, vestita di un semplice abito bianco, ma pure per mezzo dell’indecente – sia consentito il termine, ché non era affatto necessaria – nudità di Giacomo Vezzani cui va, ad ogni modo, riconosciuta un’intensità fuori dal comune.
La visionarietà della regista mal si addice ad un tema tanto scottante, che abbisognerebbe di ben altro trattamento, sia nella moderna arena politica che nelle coraggiose ricostruzioni sceniche. Non è un caso che il momento più teatralmente efficace sia stato, in definitiva, quello in cui i protagonisti hanno preso la parola in qualità di uomini normali, sul punto di piazzare ad un’asta feticci femminili, ereditati da violenze brutali commessi proprio su un incredibile numero di donne. Il labirinto creato da Maria Grazia Cipriani si annida su se stesso, è un passero che non può prendere il volo, è forse la denuncia di un dolore così intenso che non può avere lingua. Eppure, una lingua sarebbe servita: la nudità non è sufficiente, e la portata degli attori permetteva ben altri esperimenti. La concretezza della parola è la protagonista mancata di questa messa in scena, proprio così, che gli sprazzi di letteratura tratti da Ovidio, ad esempio, hanno incantato ma non impresso una direzione precisa allo spettacolo. La sciagura del femminicidio non ha trovato, purtroppo, la risposta che cercava.
drammaturgia e regia Maria Grazia Cipriani
con Elsa Bossi, Giacomo Vezzani, Nicolò Belliti e i Tecnici della Compagnia
scene e costumi Graziano Gregori
produzione Teatro del Carretto