“Un Pezzo per Sport” andato in scena all’Arena del Sole di Bologna nell’ambito di VIE Festival è una pièce pensata per omaggiare Elfriede Jelinek, una delle più importanti scrittrici contemporanee e vincitrice del premio Nobel nel 2004. Proprio la città di Bologna ha dedicato un festival (festivalfocusjelinek.it) all’autrice austriaca ancora, purtroppo, poco nota nel nostro paese. Lo spettacolo di Andrea Adriatico si colloca proprio all’interno di questa rassegna e mette in scena una pietra miliare della Jelinek in cui affronta lo sport come una grande metafora della vita, il corpo come simulacro dell’omologazione, della virilità e della forza per gli uomini e della perfezione per le donne. Lo sport come allegoria della guerra, in cui si combatte sempre per vincere, per ottenere un premio, per essere il migliore, la “razza” eletta.
Quando si entra nel teatro il palcoscenico è già in piena azione. Uomini e donne in divisa, con magliette rispettivamente blu e rosa sono già in movimento. Chi gioca a calcio, chi corre da una parte, chi salta dall’altra, chi agita braccia, gambe, busto. Sudore, fatica, determinazione, grinta e muscoli tesi sono gli ingredienti indispensabili per stare nell’Olimpo, per essere l’eccellenza. Al centro, grande, impetuosa, severa ma compassionevole c’è lei: l’autrice. Il regista decide di posizionarla in alto, quasi come una dea. Tutta di nero, con una grande gonna a balze che occupa il centro del palco, l’autrice sarà sempre presente e illuminata e dirigerà l’azione come un perfetto arbitro. Solo una presenza è diversa da tutte le altre, non indossa la divisa ed ha il volto di un rapace (impersonato da Eva Robins). Questa entrerà in relazioni con gli attori in scena, incarnerà un figlio morto e, infine, sarà sbeffeggiato e deriso nel momento in cui si scopre la sua identità di trans, perché è impossibile in questa cornice di conformismo poter accettare chi esce dagli schemi, chi ha il coraggio di essere se stesso, chi è “diverso”.
Mettere in scena la Jelinek vuol dire confrontarsi con una scrittura graffiante, sarcastica, pungente. Le parole come un bisturi sono qui strumenti affilati ed estremamente precisi, devono essere usate con attenzione ma allo stesso tempo devono penetrare, incidere, solo così possono diventare una cura per i malesseri della società, per divellere le mediocrità dell’uomo. Confrontarsi registicamente con tutto ciò, approcciarsi a un’autrice così stratificata non è semplice. Adriatico ha scelto una messinscena ricca di persone e di parole. Troppe parole e, alcune volte, poco chiare e poco capaci di rimanere impresse. Ha un certo punto si ha la sensazione che la tensione del pubblico cali e si percepisce una certa stanchezza e difficolta di rimanere concentrati sullo spettacolo e sul suo senso profondo.