La maschera più famosa della Commedia dell’Arte incontra la comicità fresca di Paolo Rossi, in uno spettacolo di originale varietà, che rispolvera la formula improvvisata pregoldoniana, e sguaina il canovaccio solo al momento giusto. Monologhi di puro umorismo si alternano a brani musicali e a racconti esilaranti, mentre l’Arlecchino nostro contemporaneo cerca di trovare, dietro la maschera colorata, lo spirito vero dell’attore e dell’attore comico, quello cui Giorgio Strehler voleva dare una nuova veste, un po’ più corta, un po’ più luciferina, un po’ più pungente: quella di Paolo Rossi, che finalmente ha dato vita al progetto. Ma quello di Strehler non è l’unico grande nome che riecheggia, insieme a lui grandi compagni e maestri del comico, come Giorgio Gaber e Enzo Jannacci, messi a nudo con ironia da aneddoti brillanti con cui Paolo Rossi si racconta, senza tralasciare gli aspetti più intimi e cupi della sua vita e carriera artistica. Un Arlecchino ancora più colorato e irriverente, di quelli che sanno rendere poetabile le storie cruente dell’attualità e hanno l’azzardo di chiuderle in una palla di vetro con la neve. Così, nella maniera più spontanea e semplice, Paolo Rossi ricompone nella memoria degli spettatori la storia di Stefano Cucchi, convinto che già si starebbe sciogliendo se non fosse per sua sorella Ilaria, che egli sente in qualche modo di dover ringraziare in una celebrazione artistica sentita, che per un po’ rende scomode le poltroncine della platea. In un varietà degno del senso originario della parola, un artista multiforme come Paolo Rossi aggiunge alla sua veste arlequin anche la toppa colorata di Emanuele Dell’Aquila e de I Virtuosi del Carso, degne spalle – musicali e non solo – del comico, che contribuiscono alla riuscita di uno spettacolo di una qualità non ostentata, che cela sotto la forma manifesta di serata da villaggio turistico un lavoro scenico dai risultati piacevolissimi. L’atteggiamento naturale, di disinvoltura familiare, dell’ artista crea un’atmosfera di bellezza rara e primitiva, un desiderio forte di ascoltare qualcuno che ha qualcosa da dire e la sa dire bene, qualcuno a cui i tempi scenici stanno stretti e che sta sul palco anche nell’intervallo – chiedendo tregua agli applausi. Questa volta quel qualcosa da dire è il racconto disordinato di un viaggio nel passato, dell’attore e del teatro, e di questo attore e di questo modo di fare teatro, che è schietto e provocatorio perché viene da dentro e gli artisti, per fortuna, non sono bravi a filtrare i pensieri.