Ci sono alcune occasioni in cui il teatro diventa un connubio perfetto di parole, interpretazione e scelte registiche. Quando questo avviene, la magia è fatta e la rappresentazione diventa una chiave che ci viene donata per aprire le porte del cuore e della ragione. Questo è accaduto, a mio avviso, nella pièce “Corsia degli incurabili”, interpretata da Federica Fracassi e messa in scena da Valter Malosti.Partiamo dalle parole: “Corsia degli incurabili” è un monologo scritto da Patrizia Valduga, una delle più sensibili e originali voci poetiche contemporanee. La sua è una poesia incuneata nella forma. Solo attraverso la struttura tipica della poesia, la poesia ha senso e diventa l’ancora di salvezza di un linguaggio che sta andando alla deriva.Il monologo, infatti, è anche un j’accuse contro il linguaggio scialbo dei mass media, contro “il vile oltraggio alle parole” e lo svilimento della lingua italiana. L’imbarbarimento della lingua si insinua come un tarlo nelle trame della società rendendo le persone incivili, incapaci di comunicare e di esprimersi. Se la prende con la televisione maggiore veicolo di mediocrità e luoghi comuni; con i giornali che non si occupano più di divulgare notizie ma che sono anch’essi vittime del sistema mediatico e del monopolio della pubblicità. Il confine tra malato e sano si disgrega sempre più e si nutre il fondato sospetto che i veri malati siano fuori da quella stanza, che siano i “Signori sani” le cui desolanti consuetudini sono aspramente criticate. L’unica possibilità di salvezza in questo sfacelo è la poesia: “riposo delle anime, poesia,/paradiso portatile del cuore,/medicina per ogni malattia,/ lo vedi sei più vera della vita,/ fatta d’anima pura e di parole…/vivilo tu questo resto di vita”.Il monologo messo in scena dalla Fracassi fu scritto dalla poetessa nel 1996 e pensato in una via intermedia tra teatro e poesia. La regia di Malosti segue quelle che furono le indicazioni di messinscena messe a punto dalla Valduga. Al centro si trova una malata terminale immobile, su una sedia a rotelle che, prima di morire, sente l’esigenza, in una sorta di testamento intellettuale, di dire ciò che pensa del mondo in cui vive e dei suoi protagonisti. E così sono le sue parole a prendersi il brandello di vita che le rimane e le usa per inveire, provocare, schernire ma anche per confessare, implorare e sognare. La Fracassi mette in scena, con la sua bravura e sensibilità, questa malata terminale e, attraverso gli innumerevoli cambi di registro vocale che vanno dalla disperazione alla rabbia, dall’angoscia alla beffa, dallo sconforto all’abbandono, riesce a rendere le parole della Valduga delle vere e proprie spade che si conficcano nelle menti di chi ascolta.A supportare la fantastica prova dell’attrice ci sono in scena solo le luci che dialogano con la malata e si animano come degli esseri viventi, la inducono a reagire, la terrorizzano, le danno conforto, respirano, rantolano, annunciano tormenti, afflizioni spasimi. Unico contrappunto, in questo dialogo interiore, è la musica, interlocutrice intangibile che sottolinea il precorso interiore della donna. Attraverso le sonate per pianoforte di Wagner, Beethoven, Tosti, passando per la natura rivisitata di Chris Watson fino ad arrivare alle urla di Giovanni Lindo Ferretti i sentimenti della donna vengono amplificati e la musica diventa l’eco dei numerosi stati d’animo che si susseguono durante l’ora di monologo.Pochi elementi, tutti necessari e attentamente curati, rendono questa pièce, nella sua semplicità, uno di quegli spettacoli che vale davvero la pena vedere.