La storia di un piccolo impiegato, Akàkij Akàkievic Bašmackin, un copista, un tipo abitudinario, di poche pretese. Anzi, con una sola pretesa, quasi un’ossessione: copiare. È il suo unico piacere che lo porta a pascersi mitemente della monotonia della propria vita anonima, al servizio degli altri, al servizio di un lavoro alienante, di colleghi che si burlano di lui, sorridente, al servizio di un sistema che lo sfrutta. Questa monotonia viene interrotta dal brusco arrivo del gelido inverno. Un inverno così freddo, così ventoso, che quasi sembra di vederlo sulla scena. “Akàkij, dovresti coprirti, non prendere freddo. La tua mantella ormai è malandata, dopo anni di pezze e toppe, non si sa più dove rammendare. Va cambiata”. Cambiata? Già. E così, centesimo dopo centesimo, sacrificio dopo sacrificio, moneta dopo moneta, i risparmi di Akàkij, ora aiutato dalla sorte con l’arrivo di una “tredicesima” incredibilmente sostanziosa, sono ormai sufficienti all’acquisto di un nuovo cappotto. E allora che frenesia, che strano, che bello scegliere la stoffa, i dettagli, il pelo, il colore. Nella bottega del sarto Petrovi, tra le bottiglie, le fantasticherie e l’ironia della moglie, finalmente il cappotto è pronto. Che gioia, che lusso, che felicità! Il cappotto ripara dal gelo invernale, dal vento, e sembra proteggere Akàkij anche dalle insidie di colleghi e superiori. Con questo bel cappotto sembra essersi conquistato stima e apprezzamento, tanto che il suo capo darà una festa in cui Akàkij sarà l’ospite d’onore. Nella Russia zarista il freddo dell’inverno è duro, quasi insopportabile. Con i suoi venti avvolge le strade, ghiaccia i marciapiedi, s’infiltra tra i mattoni delle case, scivola sulla pelle di ogni cittadino, talvolta entra nelle ossa e lì ristagna fino a raggelare i cuori. Così, al ritorno dalla festa, sotto gli occhi indifferenti di un gendarme, Akàkij viene brutalmente derubato, restando senza il cappotto, frutto di tanti sacrifici, unica fonte di calore e simbolo per lui d’accettazione da parte della società. Akàkij è di nuovo solo, nudo e inerme contro il gelo e contro la cosiddetta giustizia. È raffreddato, e in poco tempo si ammala, di febbre e disamore, e muore tra le sole cure della fidata portinaia. Il suo fantasma si aggirerà per le vie di Pietroburgo facendo sparire cappotti di ogni foggia, spaventando i passanti, soprattutto quel gendarme indifferente. Ma è il fantasma di un uomo buono, questa non è la sua vendetta, è il suo ironico riscatto: è giusto così. Un adattamento teatrale del testo gogoliano che riprende fedelmente i contenuti per riportarli in una forma più leggera, facilmente fruibile, più comica; la regia di Alessandro d’Alatri, le scene di Matteo Soltanto e la drammaturgia di Vittorio Franceschi, riportate in scena dai costumi di Elena Pozzo, con le luci di Paolo Mazzi e le musiche di Germano Mazzocchetti, sono una lente d’ingrandimento che mette in luce il simbolismo e soprattutto l’ironia del realismo di Gogol. Con l’ottima recitazione di Andrea Lupo, Giuliano Brunazzi, Matteo Alì, Alessio Genchi, Valentina Grasso e della bravissima Federica Fabiani, è messa in scena un’interpretazione curiosa, inaspettata, ma molto coinvolgente, dai toni quasi confidenziali.