“Il sale della terra” è il nuovo film del regista Wim Wenders che celebra Sebastião Salgado, fotografo abile nel disegnare (φωτός + γράφειν) il mondo con luci ed ombre.
“Il sale della terra”, metafora di matrice evangelica con la quale Cristo esorta i discepoli ad essere il sale che esalta i sapori, appare quasi un titolo contraddittorio, se si considerano le frequenti catabasi infernali dell’artista nei suoi reportage africani.
La vocazione sociale di Salgado lo conduce a testimoniare, attraverso la sua Leica, il lato oscuro e ferino dell’umanità che si macchia di efferati massacri.
La settima arte amplifica la potenza di immagini che, pur raccontando il dramma delle diseguaglianze sociali, non sono prive di una bellezza derivata da un’innegabile padronanza del mezzo fotografico, da un meraviglioso senso estetico.
È così profonda l’empatia tra Salgado ed i soggetti delle sue immagini che ogni foto diviene ritratto in bianco e nero dell’anima di chi è davanti all’obiettivo.
Fluiscono sullo schermo le migrazioni provocate dall’opera devastatrice dell’uomo incurante del fatto che, come aveva intuito l’indiano Capriolo Zoppo, “ qualunque cosa capita alla terra, capita anche ai figli della terra”.
Non solo immagini denuncia ma anche scatti che mostrano luoghi incantevoli, flora e fauna selvagge, popoli capaci come il sale di esaltare il gusto della vita, conservare la natura incontaminata, sciogliere il ghiaccio di un mondo indifferente agli ultimi.
Coglie l’artista la fratellanza fra gli esseri viventi che rende il tronco nodoso dell’albero affine alle rughe di un affamato.
Salgado, come nota Wenders, “dopo (…) la depressione in cui è precipitato al ritorno dall’ultimo viaggio in Rwanda” grazie alla natura, riesce a “non perdere la sua fede nell’uomo”.
Sarà la foresta pluviale, reimpiantata dall’artista per soffocare l’aridità dei suoi luoghi natii, a contrapporre all’orrore della morte la vitalità della rigenerazione.