da “I Fratelli Karamazov” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij
drammaturgia Pietro Babina
Si possono utilizzare cento aggettivi per riassumere più che commentare questa riscrittura scenica de “La leggenda del grande inquisitore” fatta da Pietro Babina. Escludiamo dai nostri commenti la requisitoria finale interpretata da un superlativo Orsini che ha scatenato l’entusiasmo del pubblico il quale, dopo un’ora di imbarazzata attenzione e di domande irrisolte, è esploso in un applauso liberatorio. Una serie di aggettivi, dicevo, che esprimono nel bene e nel male gli stati d’animo del pubblico: postmoderno, cervellotico, ipnotico, estetizzante, con incursione nell’arte contemporanea e nel teatro dei pupi. Rappresentazione messa in scena da un drammaturgo/regista (per intenderci Pietro Babina) affetto da solipsismo quanto noi da tradizionalismo. L’iniziale lunghissimo silenzio dove sulla scena con luci fredde, acide, suoni intermittenti di un battito cardiaco, rumori stridenti di porte che si aprono e si chiudono, lamenti soffocati, specchi che vanno i frantumi non ha un preciso significato narrativo, si va piuttosto per metafore, frammenti, microstorie, per azioni segmentate dove in questo ambiente livido Ivan è Faust e il fratello Alexsj Mefistofele. I due si muovono per gesti meccanici e parlano ad intermittenza di fede, di libertà, di vecchiaia, di umane passioni, di ingiustizia del mondo, di pane celeste sotto l’immanente scritta al neon FEDE. In realtà Ivan Karamazov si confronta con la sua coscienza, i suoi incubi, i suoi fantasmi. Bene, se in questa prima parte lo scopo del regista è stato quello di sconcertare, di puntare sul fascino irrazionale dell’incompreso, del concetto che sfugge, complice la magia dell’atmosfera rarefatta e dell’eleganza formale, allora in questo caso il giovane Pietro Babina ha colto il segno. Non metto in discussione la creatività e l’intelligenza del drammaturgo, vorrei però “tirargli la giacca” per portarlo (pur volando alto) ad un livello meno criptico.
Nella seconda parte dello spettacolo la forza monologante di Umberto Orsini cattura, ammalia e stordisce gli spettatori nel celeberrimo dialogo fra l’Inquisitore e il Cristo. E’ infatti durante una TED Conference (technology eneterteinement design) della durata di diciotto minuti che Orsini pronuncia la requisitoria finale del grande inquisitore che in realtà è un dialogo perché tutte le ragioni del Cristo (pur nel silenzio dell’inquisito) vengono esposte, con metodo socratico, dall’inquisitore per subito contraddirle.
È un racconto allegorico al tempo dell’Inquisizione. Cristo ritornato sulla terra, viene fatto incarcerare dall’Inquisitore che gli rimprovera di aver messo gli uomini di fronte alla scelta individuale e al dubbio, di aver voluto portare la libertà ad un popolo che della libertà non sa cosa farsene, ma vuole l’uomo forte, l’uomo del destino che gli risolva i problemi elementari, un potere autoritario che decida per il bene dell’umanità. Solo la Chiesa, dice, si è assunta la missione di dirigere la vita umana per realizzare la felicità universale. Ormai da otto secoli l’inquisitore rappresenta il Demonio, l’unico che può aiutarli a realizzare l’opera della felicità universale, correggendola dalla follia irrealizzabile che Cristo avrebbe voluto. L’Inquisitore rovescia dunque la sua rabbia su quel Cristo silenzioso che non lo interrompe e conclude il suo discorso comunicando al condannato che non lo teme, che la sua esecuzione avverrà l’indomani e che il popolo ne gioirà. Cristo rimane sempre in silenzio, e come unica risposta, nel testo non nella versione teatrale, si avvicina al vecchio Inquisitore e lo bacia sulle sue vecchie labbra esangui.
Anche oggi il conformismo è imperante le masse sono felicemente manipolate da abili mistificatori. Giovani e vecchi oggi sono eterodiretti e obnubilati dalla tecnologia, dallo “sviluppo”, dall’avidità, dall’apparire, vittime consenzienti del consumismo e del potere Dobbiamo fare attenzione a non mettere in sonno la nostra coscienza critica per evitare il rischio di metterci, come marionette, nelle mani del Mangiafuoco di turno.
Dell’interpretazione di Umberto Orsini abbiamo già esternato tutta la nostra ammirazione che vogliamo anche estendere a Leonardo Capuano nella parte di Alexsj. Bravissimi anche nell’arte mimica e gestuale.
Il regista Pietro Babina ha fatto girare il difficile meccanismo drammaturgico e scenico alla perfezione ben coadiuvato da Federico Babina, da Gianluca Sbicca che ha curato i costumi, da Federico Fiori per le musiche.