Felix Mendelssohn Bartholdy: Salmo 42 per soprano, coro e orchestra op. 42Ludwig van Beethoven: Sinfonia n. 8 in fa maggiore op. 93Monica Bacelli, sopranoGabriele Ferro, direttoreOrchestra e Coro del Teatro La FeniceMaestro del Coro: Claudio Marino Moretti
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Sebbene meno celebre degli oratori Elijah e Paulus e della sinfonia Lobgesang, il Salmo 42 «Wie der Hirsch schreit» venne considerato da Mendelssohn, prolifico produttore di brani sacri, uno dei suoi lavori migliori. L’autore lo musicò a più riprese nel 1837, durante la luna di miele a Freiburg. Struggenti sono i toni del testo, esternante la sconsolatezza dell’anima desiderosa di Dio, in cui ripetutamente “Meine Seele, meine Seele” e “Harre auf Gott!” reiterano la sofferta invocazione. Eppure, c’è una notevole discrepanza con la scrittura musicale, dall’ampio respiro solenne e speranzoso. Dopo un movimento iniziale ricco di invenzione, il soprano intona la lenta e lirica Meine Seele dürstet nach Gott, accompagnata dall’oboe come’era prassi in epoca barocca – si ricordi, d’altronde, che la riscoperta della Matthäuspassion di Bach si deve a Mendelssohn, da lui ridiretta a Berlino nel 1829, dopo quasi un secolo. Successivamente al recitativo e all’aria in dialogo con le sezioni femminili, esplode il quasi fanfaresco “Harre auf Gott!” a pieno coro, snodo fondamentale della maestosa composizione. Dopo il quintetto, in cui questa volta la voce solista conversa con tenori e bassi, la fuga finale costituisce l’ennesimo omaggio all’arte bachiana, in una ritrovata fiducia del cuore nell’Onnipotente.
Monica Bacelli è soprano dal timbro brunito e dall’ottimo fraseggio, ma la sua eccellente esecuzione avrebbe acquisito ancor più pregio con un superiore slancio nel registro acuto. Il Coro, preparato dal maestro Claudio Marino Moretti, si è presentato al meglio delle sue capacità, ritrovando finalmente un’efficace potenza di suono. Gabriele Ferro ha diretto in maniera intelligente e calibrata questa prima parte del concerto, sapendo restituire adeguatamente le giuste dinamiche e armonie che caratterizzano alcune parti del salmo.
La Sinfonia n. 8 fu oggetto di intenso lavorio da parte di Beethoven che la iniziò nel 1811 per completarla solo nel 1812, in parallelo alla Settima. Non venne apprezzata perché non si riuscì a coglierne la raffinatezza del linguaggio. In effetti, comprensibile è come, dopo la Terza e la Quinta, il pubblico medio potesse gridargli, alla prima esecuzione, “Es fällt ihm schon wieder nichts ein!”. Sì, perché questa “piccola sinfonia” si discosta dallo stile potente e innovativo, ascoltato fino alla Settima, per una leggera scherzosità e un gusto ritmico insolito che riprendono forme stilistiche legate a Haydn e a Mozart. Permane, infatti, in tutti i movimenti, una certa meccanicità, curiosamente rossiniana ante litteram. Presente fin dall’Allegro d’apertura, ove da un primo tema vigoroso si passa a quel ticchettio che fa da collante col secondo motivo più disteso, diventa esplicita nel burlesco Allegretto, il cui tema è tratto dal canone Ta-ta-ta, senza numero d’opera, dedicato a Mälzel, l’inventore del metronomo: è proprio questo accompagnamento “automatico” dei legni, su cui gli archi intessono una melodia a tratti icastica e a tratti bizzarra, a conferire all’opera una gaiezza inconsueta per il “serio” Beethoven, a creare quella Freude che esploderà in tutta la sua forza nella Nona. Il Tempo di menuetto è quasi una parodia della serenata settecentesca mentre l’Allegro vivace, a metà strada tra sonata e rondò, riprende il ticchettio iniziale.
Qui la conduzione di Gabriele Ferro si è rivelata troppo tranciante nelle dinamiche, oscillanti senza vie di mezzo tra il p e il f, inficiando parzialmente l’eleganza dei due movimenti centrali, dove una maggiore attenzione avrebbe potuto rendere più propriamente la piacevolezza dell’impasto armonico dei fiati e degli archi.
Applausi di consenso generale per tutti.