Regia e drammaturgia: Benedetto SiccaCon Mauro Lamantia, Benedetto SiccaScene Luigi FerrignoCostumi Zara De VicentiisProduzione Teatro Stabile di Napoli
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“Com’era bella Napoli quaranta anni fa, avvolta nell’azzurro dell’oscuramento, misteriosa, sussurrante nella notte di passi sconosciuti, fasciata all’alba nei veli della sua miseria addormentata, luccicante al sole impudica, tutta ossa e pelle livida, nelle mattinate insolitamente vuote, sempre malinconica, stupefatta dalle bombe, chiassosa e ridente nei ricoveri pullulanti di spaventata allegria, sbalordita di ritornare a vivere due volte al giorno.” così incomincia il romanzo di Giuseppe Patroni Griffi, “La morte della bellezza”, la bellezza della nostra città trasfigurata attraverso un amore fra due giovani, anch’essi dalla bellezza quasi atavica, simbolo di un tempo che non tornerà mai più.
Non è facile, dunque, mettere in scena una poderosa opera in prosa come quella in questione, ed infatti Benedetto Sicca, regista della piéce, veicola semplicemente passi scelti del libro mediante un approccio meta-narrativo, costruendo lo spettacolo su due, se non su tre piani.
Ma partiamo dall’inizio. Sulla scena totalmente vuota del Ridotto Mercadante sta un ragazzo (Mauro Lamantia nel ruolo di Eugenio), in canotta, calzoncini e calzettoni. Un giovanissimo ricciuto dai capelli neri, simile ai giovanotti tanto vagheggiati da Pasolini, perfetti emblemi dell’omoerotismo dei decenni passati del XX secolo. L’incipit della messa in scena combacia con quello del romanzo, ma prima di incominciare, Benedetto Sicca (Lilandt) si rivolge al pubblico in sala; avverte della natura dell’eros, offrendo agli spettatori l’opportunità di saltare qualche capitolo del romanzo da loro rappresentato, solo se (provocatoriamente) qualcuno griderà dalla platea “froci” o, perché siamo a Napoli, “ricchioni”.
La narrazione inizia; Sicca e Lamantìa ne sono le voci narranti, sono gli stessi personaggi, ma a tratti anche due lettori, due giovani uomini che leggono di Eugenio e di Lilandt facendo si che la drammaturgia sia un continuo alternarsi di diegesi ed extradiegesi (fuori e dentro la storia), in cui Mauro e Benedetto alle volte, prendono il sopravvento sugli stessi Eugenio e Lilandt, e con delle pause meta-narrative riflettono sulle proprie emozioni. Tale impostazione ci fa comprendere come e perché essi hanno scelto alcune pagine, le scene chiave dell’amore fra i protagonisti, tacendo sugli altri personaggi del romanzo. Una dimensione – quella dei loro corpi, corpi di Eugenio e Lilandt che sono quelli di Sicca e Lamantia, – esclusiva, così come l’eros che sperimentano e l’amore, con tutti i turbamenti e le paure che ne derivano. Una dimensione che incomincia con il loro primo incontro al cinema, durante un bombardamento, il ritrovarsi avvinghiati, abbracciati, sorprendente antidoto alla probabile morte, e quindi l’accendersi di una passione che Patroni Griffi non risparmia di descrivere con un linguaggio dalla “sublime lascivia”, il cui segno evocativo nell’allestimento di Sicca sono i fiori rossi sospesi sul fondo del palco.
Il vestirsi e lo svestirsi di Eugenio e Lilandt a testimonianza di ciò che sono individualmente e di ciò che divengono al cospetto del corpo dell’altro, è come un ludere degli interpreti che riprendono i personaggi di Patroni Griffi permeandoli di una sensibilità magari più attuale, uscendo ed entrando in essi a mo’ di proprio alter ego. Lo spettacolo è quasi un continuo rovistare, all’interno del romanzo, nel tentativo di riconoscersi nei panni dei due protagonisti. Ed ecco, il bisogno di interfacciarsi col pubblico, di renderlo compartecipe più che della storia in sé, della propria rilettura. L’interazione combacia con la volontà di fare dell’opera una racconto ancora aperto, aggirando così lo spettro di una prosa abbastanza ricca per essere facilmente trasformata in piéce. Dei riflettori laterali puntati verso la platea intervallano il tempo della narrazione e un lungo silenzio che esprime un momentaneo allontanamento dei due amanti pare che fermi lo spettacolo, quasi come se esso potesse proseguire solo con la compresenza di Lilandt e di Eugenio.
Due sono i punti cruciali rispetto al rapporto con la materia prima che è un romanzo di 311 pagine (che non vuol essere inteso come confronto, date le due cose incommensurabili). Il primo sicuramente consiste nella scelta, sopra già motivata, di evitare tutte le implicazioni e interazioni con gli altri personaggi, microstorie e vicende che costellano la storia d’amore fra i due e ne scalfiscono le stagioni. Le voci di Sicca e di Lamantia sono il veicolo di parole, interi paragrafi ritagliati dal libro, incipit di capitoli nei quali Patroni Griffi descrive lo sviluppo del loro sentimento e della loro passione; l’incontro al cinema, innamoramento e accettazione di questa passione, distacco, riavvicinamento ed epilogo diventano le “pagine animate” che con i corpi vengono sfogliate dai due interpreti. Le parole restano esattamente di Patroni Griffi, ma i toni, le espressioni del volto risuonano come un dialogo fra due amanti dei nostri giorni.
Sullo sfondo la guerra, ed esattamente come nel libro, costituisce una realtà quasi secondaria, insulsa e volgare rispetto ai loro riti d’amore, al riconoscersi nelle piaghe e nelle fessure delle loro membra. Alle bombe meglio Chopin, meglio il suono dei loro orgasmi colmi d’amore! Procedendo dunque, per sottrazione, la drammaturgia si rivela invece ansiosa di confrontarsi con la scabrosità raffinata con la quale lo scrittore non esita a descrivere l’omoerotismo: e questo è il secondo punto. Gli interpreti la veicolano con il loro corpo. C’è un momento in cui il distendersi, dando le spalle al pubblico, del ben tornito Eugentio/Mauro sul gradino nero del palcoscenico, richiama a quella Bellezza con la quale lo scrittore avvolge i suoi maschi, i suoi giovani amanti, contrassegno di un tempo dell’anima che non tornerà mai più. Lo spettacolo diviene così una tela da tessere, un cercare fili conduttori nel romanzo di una lotta amorosa; ma a volte le incursioni meta-narrative e i silenzi rallentano il ritmo della pièce, e la scabrosa eleganza di Patroni Griffi probabilmente ci emoziona da sé e qualche esplicita scena di un atto sessuale forse non ne incrementa l’intensità; a tratti forse la smorza. Tanto che l’ultima scena con la quale si narra l’epilogo, ma che in realtà nel romanzo lo precede di un po’, quella di quando ballano e che sul palcoscenico diviene immaginaria e trasognante, ricostituisce per un attimo l’intensità di tutta quanta la storia d’amore. La paura, la paura, quella di cui si scrive a pagina 256 del libro, racchiude il finale di questo incontro e scontro fra corpi, di questo tremendo e al contempo meraviglioso riconoscersi complementari e cercarsi, qui lasciato in una vaghezza tutta elegiaca giacché, tacendo di ciò che ne sia stato di Eugenio e di Lilandt nelle ultimissime pagine del libro, Sicca ne cristallizza l’amore, quell’eros tanto esclusivo da non meritarsi alcun invischiamento nelle imprevedibili e rischiose contingenze della vita. “Siamo troppo giovani per illuderci che tutto questo durerà una vita, come dovrebbe durare….avrei preferito che ci fossimo incontrati da vecchi.” Dirà Eugenio, al culmine del loro amore, disperatamente per non poter eternare, anche nelle piaghe dell’esistenza che va, che scivola via, l’unione con Lilandt.