George Bernard Shaw dimostrò un eccezionale talento nel riconoscere la natura della propria opera, se è vero, come è vero, che volle includere La professione della Signora Warren all’interno delle cosiddette Commedie sgradevoli. Sgradevoli, appunto, perché capaci di toccare con mano lo squallore di un’esistenza affatto convenzionale, come nel caso della Signora Warren. Poverissima, tradita, derubata e finanche sfruttata, la donna si dà, infatti, all’antico mestiere della prostituta. Con dignità, mantenendo alto, per quanto possibile, il proprio onore, ma pur sempre relegando il proprio corpo alla mercé di uomini sconosciuti e non, dai quali avrà pure una figlia, la graziosa Vivie. Passato il tempo della bellezza, la donna scopre di essersi arricchita e, con l’aiuto delle finanze di Croft, un vizioso aristocratico dedito alla bella vita, diventa tenutaria di diverse case chiuse in tutta Europa. Shaw non giudica in prima persona, non destina i personaggi ad una sconfitta subitanea in virtù delle loro scelte, ma lascia che sia il tempo a scavare, dentro di loro, una fossa. Il tempo, nella commedia in questione, ha il nome di Vivie. La giovane figlia della Signora Warren, cresciuta lontana dalla madre per ovvie ragioni, ha potuto godere di tutto ciò che il bel mondo poteva offrire. Ha studiato nei migliori college inglesi, ha avuto grandi disponibilità di denaro, ha potuto vestire gli abiti migliori. La commedia nasce, così, nel momento in cui la giovane Vivie torna dalla madre: il conflitto fra le due è naturale. Due donne così diverse fra loro non riescono a trovare un accordo; Vivie, così indipendente, testarda e destinata ad essere una donna in carriera si confronta con la madre, Mrs. Warren, e con il suo stuolo di probabili ex amanti. Ora, la commedia di Shaw trova un primo punto di svolta nel momento in cui la madre confessa alla figlia quella che è stata la sua professione durante la giovinezza: la prostituta, appunto. Eppure, dietro una scelta così tragica, ci sono motivazioni più che degne, le stesse che spingono Vivie verso il desiderio di essere indipendente. La giovane capisce, non è una viziosa sprovveduta quella che ha davanti, ma una madre che le è simile in tutto e per tutto. Così, le due donne, non possono che riconciliarsi, trovando una nelle braccia dell’altra quello che il tempo aveva sottratto loro. Il secondo punto di svolta, però, cela dietro di sé un esito negativo, e la colpa va ricercata nel gesto di Sir Croft, socio di Mrs. Warren, che decide – dopo un fallito tentativo di corteggiamento – di rivelare alla giovane Vivie come la madre stia esercitando la professione di tenutaria. Da qui, prende vita un lungo alterco tra madre e figlia, l’atteggiamento di Vivie si fa più aspro, scontroso: il rapporto con la madre è alla fine, le chanches della Signora Warren sono terminate.
Lo spettacolo, sotto l’attenta ed originale lettura di Giancarlo Sepe, premia il talento straordinario di Giuliana Lojodice, oltre al fascino sempre discreto di Giuseppe Pambieri, bravo a non andare sopra le righe in una commedia che non lo vede protagonista. A sormontare il palco, un’enorme banconota da cinque pounds: tutto il mondo – non solo quello della Signora Warren – è votato a quel denaro, impresso in cielo come fosse il trono di un Dio o, addirittura, Dio stesso. I punti di debolezza sono da ricercarsi esclusivamente nella commedia, ma certo non è questa sede adatta per discutere dell’opera di un Premio Nobel come Bernard Shaw. Ciò che colpisce, naturalmente, è la forte attualità dei temi proposti, come quello della prostituzione, che pure è celato sotto la grazia dello stile di Shaw, oltre, a quello ben più propositivo e degno di riflessione, dell’eterno conflitto generazionale che non premia, ahinoi, Mrs. Warren.