Innanzitutto sgombriamo il campo dall’errore di base secondo cui, per alcuni intoccabili soloni, o solo perché lo ha deciso la massa, i Led Zeppelin sarebbero i padri dell’hard-rock, e qualcuno più audace, o completamente incosciente, persino dell’heavy-metal. Niente di più falso. Basta ascoltare una volta, o più se si è proprio convinti che quello sia hard-rock, “Physical Graffiti”. Un album doppio, con una copertina indimenticabile che immortala un palazzo urbano ai numeri 96-98 di St. Mark’s Street nell’East Village a New York (il palazzo è ancora lì, identico) ma con un proprio condominio personale creato dal gruppo con il gioco della fustellatura di quella copertina che, se spostata lateralmente, permette di penetrare all’interno degli appartamenti e vedere le più svariate immagini: si va dai personaggi celebri, ai quadri famosi, a istantanee del gruppo ritratto in momenti di svago, alle lettere che individuano il titolo dell’album. Blues, rock (l’hard-rock, o l’heavy-metal lasciamolo, con tutto il rispetto, ai Black Sabbath e adepti vari), tropical e persino, come si direbbe adesso, world music con gli arpeggi di “Kashmir”, definitivamente esplosi nell’album “No Quarter”, 1994. Ma questa, è un’altra storia. Torniamo per un attimo a “Physical Graffiti”. Custard Pie è il primo di quei pezzi dal suono dolcemente brutale che distinguono questa opera d’arte. Nasce da un brano blues, Shake ‘Em On Down, di Bukka White, si cita anche Custard Pie Blues di Sonny Fuller, Drop down Mama di Joe Williams. Le fanno eco The Wanton Song, Sick Again, e soprattutto The Rover giustamente considerata il vertice dei loro pezzi blues rock. E già il fatto di citazioni di altri autori nelle composizioni dei “nostri”, ci indica già la strada di dove andremo a parare: una lunga novella, tinta di giallo, lungi dall’essersi conclusa, nella quale ognuno è libero di farsi un’opinione, magari andandosi a cercare i brani e fare il confronto. È però ovvio che il sottoscritto, in quanto cresciuto a pane e anche Led Zeppelin, cercherà di tirare l’acqua al suo mulino, tentando, però, di essere il più imparziale possibile considerando che, per fare musica, servono sette note. Sì va bene poi ci sono i diesis e i be-molle, pure le diminuite e le accordature aperte, ma sette sono le note, anche se, qualcuno, le porta sino a dodici.Sette quelle che servono per definire un plagio, quelle che servono, se sapientemente usate, per fare crescere generazioni e generazioni da quando esistono le note, da quando esiste la musica.Una novella piena di nomi, citazioni ed incastri, con canzoni da cercare, ascoltare. Certo è che sarebbe bello potere scrivere una “novella” con un livello di connessione tale che, mentre scrivi una cosa, immediatamente ti arriva il sonoro tra capo e collo. Quindi, siccome tutta questa tecnologia tecnologica ancora non esiste, quella già esistente permette comunque, se una o uno è curiosa o curioso, di andarsi a cercare le canzoni e pure i nomi e pure i padri putativi.Per ogni novella che si rispetti, soprattutto se tinta da contorni di un po’ di giallo, e se poi questo giallo vale 560 milioni di dollari, è doveroso presentare i quattro personaggi principali, come farebbe Poirot. E, come farebbe Agatha Christie, invitandovi a ricordare le tracce e gli indizi lasciati, tanto poi, se scordati, basterà rileggersi le puntate precedenti, poi tornerà Poirot dando la soluzione con elementi mai letti prima. Eccoli: – Robert Plant voce, armonica a bocca: folgorato dalla scoperta del blues e del rock and roll, arrivando persino a una devozione per Elvis Presley. Con la Delta Blues Band e i Sounds of Blue propone riletture di Muddy Waters e altri grandi classici del blues. Lasciata la famiglia a soli diciassette anni, Robert incrementa la sua attività militando in un gran numero di gruppi di Birmingham, tra cui i New Memphis Bluesbreakers e i Black Snake Moan (in onore del vecchio classico di Blind Lemon Jefferson) e consolidando le sue radici blues approfondendo la conoscenza del repertorio di Robert Johnson, Bukka White, Skip James, Jerry Miller e Sleepy John Estes. Durante la sua militanza nei The Crawling King Snakes, nel 1965, stringe amicizia con un poderoso, ma gioviale, batterista suo coetaneo, John Bonham. Nell’ambiente musicale inglese il nome di Robert Plant inizia a circolare e la reputazione della sua formidabile voce cresce rapidamente; formando addirittura un duo con Alexis Korner, il primo bluesman inglese. In quel periodo Plant inizia a cantare in un gruppo chiamato Hobbstweedle, formazione folk rock che combina elementi blues, psichedelici e tematiche connesse aIla saga celtica, quella vera, con tutto il rispetto anche per Salvini. Alla fine dell’esibizione, Page avvicina Plant e gli propone di raggiungerlo per qualche giorno nella sua abitazione galleggiante di Pangbourne, a Londra, per discutere di un progetto musicale completamente nuovo. I due passano diversi giorni ascoltando pile di vecchi dischi blues e folk, confrontandosi senza sosta sul nuovo suono e sul nuovo impatto che il rock avrebbe dovuto avere negli anni a venire; con un’alchimia che andava molto al di là di una semplice visione comune delle cose. Nel 2011 il sondaggio condotto tra i lettori della rivista Rolling Stones, vota Robert Plant come il più grande cantante solista di tutti i tempi. «Quando gli ho fatto il provino e l’ho sentito cantare ho immediatamente pensato che ci fosse qualcosa di storto nella sua personalità o che fosse impossibile lavorarci insieme, perché, semplicemente, non riuscivo a capire come mai non fosse ancora diventato una celebrità.» (Jimmy Page).– Jimmy Page, dissolvenza, il seguito alla seconda puntata.– continua –