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Mastro-don Gesualdo, pubblicato da Giovanni Verga nel 1889 è il secondo romanzo che lo scrittore siciliano compone per il suo più ampio disegno letterario: un ciclo, rimasto incompiuto, dedicato ai vinti. Il progetto doveva contenere cinque romanzi, che descrivessero la lotta per l’affermazione in tutte le classi sociali, dalle più umili alle più elevate e in cui i protagonisti finissero per pagare, con una sconfitta irreparabile, il loro tentativo di modificare la propria condizione sociale. Il Mastro-don Gesualdo, narra, così, della vita di Gesualdo Motta, soprannominato con disprezzo dai suoi compaesani “mastro-don”, per sottolinearne la irrimediabile natura di parvenu. Egli, infatti, è un “mastro”, un muratore, che attraverso una fortissima ambizione è riuscito ad arricchirsi e anche a diventare “don”, appellativo riservato ai signori, grazie a un matrimonio senza amore con una nobile decaduta. Gesualdo ha incentrato tutta la sua esistenza sull’ascesa economica e sociale, sacrificando ogni affetto a ragioni strettamente monetarie, vivendo ossessionato dalla difesa della sua “roba”, quella ricchezza che si è tanto duramente guadagnato, per cui si ritrova, alla fine schiacciato e sconfitto dall’aridità di cui egli stesso si è circondato.
Il romanzo ha visto nel corso degli anni molte riduzioni per la scena, tra i quali resta memorabile la versione che ne fece Turi Ferro nel 1967, alla quale il figlio Guglielmo Ferro, ha voluto rendere omaggio con questo progetto. Il regista, che da anni vive a Londra, ritorna alla nativa Sicilia realizzando uno spettacolo dal gusto moderno, che riesce nell’ambiziosa impresa di restituire una trasposizione attuale del Mastro don Gesualdo, pur nel rispetto assoluto del valore storico-letterario del testo verghiano. Appare evidente allo spettatore la raffinata e puntuale contestualizzazione del concetto di “roba”, l’incessante e frenetica rappresentazione di un mondo dominato dal materialismo estremo, dove non c’è posto per i sentimenti, un mondo senza spazio e tempo, in cui i personaggi sono ‘fotografati’ come marionette.
La scena è fortemente contemporanea, scarna, minimalista, lascia molto spazio alle videoproiezioni che ne illuminano il buio asfissiante, evocativo del grigiore interiore di Gesualdo Motta, il cui ruolo è affidato a Enrico Guarneri, perché, come spiega il regista, «è l’ultimo degli instancabili “attori promiscui”, quelli sanguigni, evocativi, che pescano le interpretazioni dalla vita vissuta. Uno che ha l’animo tutto siciliano». Dotato di una innata vis comica, Guarneri si è affermato incarnando personaggi diversissimi, dimostrandosi capace di passare dal registro drammatico a quello comico con grande maestria, qui incarna perfettamente la complessità interiore, l’infelicità e il senso di fallimento del manovale che è riuscito a ‘farsi da solo”, ma che è odiato da tutti e trattato ora con disprezzo ora con ironia.
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