Un viaggio profondo, o piuttosto un’immersione, un percorso circolare e scosceso tra i meandri più contorti della psicologia umana. L’impressione è veramente quella di muoversi in un abisso, le cui parti più buie non sono che il riflesso delle più luminose, e viceversa.
“Ashdown”, clinica dei disturbi del sonno. Sarah, narcolettica, un tempo forse lesbica, traumatizzata da un abbandono che non riesce a spiegarsi, preda della sua malattia che talvolta non le lascia distinguere il sogno dalla realtà, con la fobia delle rane, che hanno gli occhi così aperti e si sa, gli occhi sono lo specchio dell’anima…
Robert, un tipo strano, insicuro ma determinato, che pone l’amore al di là della sessualità, e che molto umanamente trasforma in tragedia un sentimento di rifiuto. Un legame fortissimo, indissolubile, che cambia le vite di entrambi, che si muove “tra l’ombra e la grazia” e porta a chiedersi se davvero esistano sentimenti così grandi da divenire ingestibili o se invece sia proprio l’incapacità nel riconoscerli ed affrontarli a renderli così grandi da divorare le vite di chi li nutre.
C’è la dottoressa Cleo, e poi c’è Gregory, il direttore della clinica, ossessionato dall’idea che il sonno sia una malattia. Che sia l’unico vero malato?
Nella trama è citato anche Sandman, personaggio mitologico delle terre del Nord, che durante il sonno cosparge di sabbia gli occhi dei bambini; così, in un turbinio di polvere, i protagonisti sono inermi proprio come dei bambini di fronte ai propri sonni disturbati. L’interpretazione freudiana, che parte appunto da questa figura fantastica, di una certa corrispondenza tra la vulnerabilità degli occhi e la paura della castrazione può diventare qui un punto d’incontro tra le fobie e i sentimenti dei due personaggi. Un thriller psicologico che nasce dalla frammentazione del sentimento amoroso, secondo le dinamiche interiori e relazionali dei personaggi, il quale finisce per frammentare le vite stesse di Sarah e Robert. L’amore ha una forma, o ne trascende tutte le possibili?
Le ottime Alice Redini e Irene Serini sono in scena insieme al regista Filippo Renda, la cui capacità drammaturgica sta nella perfetta resa di un senso di disturbo, attraverso una regia molto originale che lega lo stile della graphic novel alla complessa introspezione psicologica e al persistente uso di flashback e rimandi del romanzo di Coe; un’impostazione scenica dai dettagli carichi ed emblematici, resa ipnotica e particolare dalla presenza insistente di un proiettore. Molto efficaci le musiche di Patrizia Rossi, così come le scene e i costumi di Eleonora Rossi, insieme alle luci di Marco Giusti.