Di Enzo MoscatoRegia Carlo CercielloCon Imma VillaScene Roberto CreaCostumi Daniela CiancioProdotto da Teatro Elicantropo – Anonima Romanzi/Prospet
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Es-tradizione è la parola chiave con la quale Enzo Moscato descrive i suoi “early-stages” drammaturgici dei primi anni ’80 e di cui proprio “Scannasurice” ne è emblema.
Es-tradizione si prefigura come atto di resistenza nel tentativo di distruggere quella Napoli da cartolina, falsamente solare, pregna di banale folclore che nostro malgrado, l’ha fatta conoscere al mondo intero. E difatti il rovescio, il contrappunto della coppia mare-sole non può che essere l’oscurità, il sotterraneo, l’altro mare in cui negli anni post-terremoto dell’80, la città (intesa anche da un punto di vista etico-antropologico) incomincia ad affondare.
“Misteriosofico poema della discesa negli inferi”, è il sottotitolo nonché esatta definizione dell’opera, e ci aiuta a decodificarne la poesia e il senso tragico in cui lo spettatore s’immerge, anzi è il caso di dirlo, sprofonda. “E accussi ‘сcà sule tre cose nun ce so’ rimaste: gli ipogei, ‘a memoria e ‘a magia…” tale è l’esordio sulla scena del solo personaggio, una fila di parole che ci ricorderemo alla fine, dopo essere usciti dal teatro, ed aver iniziato a meditare, seppur distrattamente, su ciò che abbiamo visto.
Un’enorme struttura a mo’ di parallelepipedo con visibili crepe ed una precaria tubatura occupa tutto lo spazio scenico, è l’intero mondo-trappola di un’ambigua identità sessuale. Ha sottili gambe e ginocchia, le sue braccia sono lunghe ed ossute, possiede una sorta di berretto che impedisce ogni possibile identificazione di genere, indossa una vestaglia su un intimo tipicamente maschile; la protuberanza del basso ventre non inganna, ma il trucco sugli occhi è forte: è una triste maschera femminile. Sta lì dentro, attorniato da sudici e scarmigliati oggetti, si muove all’interno di questa casa/tomba/grotta agilmente come un felino in cerca di topi, gli invisibili che invadono quegli spazi abitativi e che “a milionesimi di milioni” emigrano al nord (al Vomero, s’intende!). Il suo è un bollettino di guerra per una drammatica contesa fra roditori ed uomini.
Sola, sulla scena, per settanta minuti Imma Villa non si contenta di dar corpo e fiato ad un ambiguo abitante di una stamberga partenopea, ma è una polifonia di voci (della coscienza, della propria anima che muore lentamente asfissiata nel controverso ipogeo del proprio corpo, di stralci di storie depositate nel ventre dei Quartieri), potenziata dalla relativa eco che di tanto in tanto la regia lascia dipanare all’interno del teatro. Eh si, delle eco… perché a pensarci bene, Napoli sotto, nel suo oscuramento e non al livello del mare e del cielo azzurro e del sole, è vuota; è un tunnel enorme, un labirinto di snaturati mutamenti cuciti ripetutamente di decennio in decennio. A Cerciello, dunque, non basta raccontare del ’44 allestendo – lo scorso ottobre – Signurì, signurì sempre di Moscato; lo spettro di una tragedia ritorna quasi quarant’anni dopo col terremoto, altro dissesto geo-civile. Ma come accade nelle opere del drammaturgo napoletano, tutto è trasfigurato in una poesia misteriosa e limpida al contempo, nella “s-prosa” di una lingua napoletanissima e non, finalmente lontana da quella dei grandi classici del teatro nostrano. La lingua di Moscato è uno spettacolo a parte, un organismo vivente di per sé, una tela ricamata da sottotesti nascosti. E dunque, la mimica perfetta e la suggestiva forza espressiva di Imma Villa ce la veicola come misterioso poema, unico ed estremo canto sublime e plebeo di un’anima del popolo da decodificare tutti quanti insieme. Il teatro, questo teatro con questa lingua, queste voci vuole imprimersi nel modo di comprendere ed udire di ciascuno di noi.
Il personaggio ce l’ha con i topi, ammicca ad immaginari coinquilini, racconta storie della Bella ‘Mbriana, de ‘o Munaciello, di vicine scomparse e contemporaneamente va perdendosi in quelle celle per esseri umani che sono i nostri bassi, abitazioni-tombe insieme, in un vorticoso rituale. Nell’alternanza del buio/luce, gli intermezzi musicali lirici danno l’impressione di essere calati in una dimensione ora elegiaca, ora tragica in cui s’innestano altrettanti momenti comici-rocamboleschi; microstorie narrate, Imma Villa è un cantastorie; un dialogo struggente con uno studente, Imma Villa è un corpo grottesco che assurge ad un disarmate anelito d’amore: “Amami, perfino” dirà, infine, quasi sottovoce con la tragica consapevolezza di non poter godere della luce quanto del calore di una vera passione; Imma Villa è, ancora, una coscienza trasfigurata in un volto mariano il cui velo è una bandiera del Napoli, ma è anche una prostituta; è un’aspirante sterminatrice di uomini – i topi, i veri topi! – in questo mare di popolazione che ha mercificato la Bella ‘Mbriana, la sacra anima delle mura domestiche.
La suggestione visiva ed uditiva, ma soprattutto evocativa, è costante per tutta la durata dello spettacolo, e la presenza di fievoli luci, come ceri per defunti, che pervade l’ipogeo negli ultimi istanti segna l’arrivo di un lungo viaggio che noi – attraverso la sola voce dell’attrice e la preziosità della regia – senza essercene accorti abbiamo appena compiuto nelle viscere di una città fra antichi suoni e culti, nella “disperata vitalità” e genuina di un popolo che muore progressivamente divorata dallo spettro della globalizzazione.
‘O sole, ‘o sole! Stavolta è una chimera, un grido disperato, è un’eco che misura la profondità di quei sotterranei come quella delle drammatiche fratture della nostra storia.