Che “Tutte le commedie di Thomas Bernhard siano delle danze macabre” come diceva Claus Peyman è un dato costante nella produzione dell’artista, ma nei giorni in cui scrisse “Alla meta” il drammaturgo (che prima di essere tale si dedicò al violino e al canto) doveva essere particolarmente depresso forse per quel male incurabile che gli fece vedere la morte come ultima essenza dell’essere. Questa commedia cinica e ironica è soltanto sfiorata da quella forma di sarcasmo autodistruttivo mediato attraverso una feroce comicità che troviamo in altre opere (salvo quando la moglie, per sottolineare la pochezza del marito, ripete la frase cui lui ricorreva alla fine di ogni discussione “tutto è bene quel che finisce bene”). In questa pièce Bernhard supera il pessimismo per buttarsi nel precipizio del nichilismo. La conseguenza pratica di questo quadro nero su nero di eccessive dimensioni (dura quasi tre ore) è stata la rottura della resistenza di molti spettatori che, approfittando dell’intervallo, hanno cercato altrove un lacerto di sorriso.
I personaggi sono la madre, la figlia e giovane drammaturgo di successo. In realtà è il personaggio della madre che domina la scena, lei è il mattatore nel duplice significato: che ruba la scena e (come il matador) uccide metaforicamente i comprimari: la figlia e lo scrittore. “Alla meta” è praticamente un monologo di questa donna arida, egoista, dominata da un impulso ferocemente autoritario, che si sposa sedotta dalla Fonderia, dalla casa al mare e dai soldi del marito che in realtà disprezza profondamente. Non ama nessuno, anzi odia il mondo che le sta attorno, è felice quando “finalmente” muore il figlioletto nato deforme, gode ad umiliare la diciottenne figlia un po’ ritardata che le sta sempre attorno per servirla. La schiavizza facendola inginocchiare ai suoi piedi. Poi, nella casa al mare dove le donne si sono trasferite, entra in scena uno scrittore di teatro conosciuto da poco reduce da un grande successo di una commedia intitolata (guarda la combinazione) “Si salvi chi può”. La figlia guarda con eccessiva ammirazione il giovane, ma è la madre che “ça va sans dire” tiene il pallino e gli contesta la funzione dello scrittore teatrale che pensa di poter cambiare il mondo ma per poi prendere atto che è già stato tutto scritto. Al che il drammaturgo ispirandosi a Pirandello, riconosce che lo scrittore mette la propria giacca addosso a qualcosa che già esiste per farla apparire nuova.
“Noi non facciamo altro che riscriverlo sotto forme diverse, facciamo solo domande senza avere mai risposte”. “Dipende da noi, confuta la figlia, qualcosa di nuovo c’è sempre se abbiamo la volontà di vederlo”. La madre conclude che “Il pensiero d’uno scrittore di teatro dovrebbe essere quello di far saltare il mondo intero e tutto il palazzo reale”. Lo spettacolo si chiude con la donna che agita un abito del nonno clown e lo fa danzare sulle note del “Bolero” di Ravel.
La pièce è una metafora del teatro in chiave grottesca, una denuncia di sapore pirandelliano, una metafora ironica, spietata e corrosiva di questa vita che è tutta finzione, ipocrisia, sopraffazione. In questa pièce l’autore ha dato vita ai suoi fantasmi, non ha creato il personaggio ma gli si è infilato dentro con, a volte, divertito narcisismo. La vicenda è raccontata con una scrittura asciutta, veloce, un ritmo teatrale equilibrato e una profonda analisi psicologica dei personaggi. Quello di Berhard è il teatro di parola, di dialoghi dove l’iterazione e la logorroicità del personaggio ne esprime il dramma esistenziale.
Non si capisce come Micaela Esdra riesca a mantenere per tre ore il ritmo logorroico che il testo e il regista le impone senza cedimenti o pause artificiose. Stupisce la velocità dell’eloquio, la varietà dei toni, la mimica facciale che potrebbe esprimere senza l’ausilio della parola, la gestualità, le incredibili posture su quella vecchia poltrona color rosa antico (che a volte somiglia a un letto di costrizione). Una grande prova d’attrice! Bravi anche Rita Abela nelle vesti della figlia e Diego Florio in quelle del drammaturgo la cui bella voce con le giuste intonazioni è stata molto apprezzata.
Belle e funzionali le scene e costumi di Sebastiana Di Gesu.
Il meccanismo drammaturgico ha girato alla perfezione grazie alla regia di Walter Pagliaro.