All’aprirsi del sipario, Roberto Herlitzka-Casanova, anziano e dimesso, vaga nella stanza del castello di Dux dove da tredici anni è il bibliotecario del conte di Waldestein, tra cinque figure femminili in abiti succinti e vertiginose parrucche settecentesche, abbandonate in pose sbilenche su alti seggioloni.
Tentando di assuefarsi alla scarsa luminosità dell’ambiente cita brani dell’Histoire de ma vie, la sua biografia scritta fra le pareti del castello, bisognoso di mettere a punto un’immagine più autentica di sé, lontana dagli schemi convenzionali dell’epoca che lo avevano relegato al rango di impenitente seduttore e cinico avventuriero (cliché, peraltro, radicato nell’odierno immaginario collettivo).
Una figura si anima con movenze meccaniche, come bambola di porcellana di un carillon, la voce sincopata e stridente emette verdetti. Casanova si scuote, si schernisce, nega di essere colui che è.
Uno spirito vitale sfiora le altre figurine parlanti, che ritmicamente assumono nuove pose scomposte, emettendo parole robotiche che accusano, deridono, provocano, rievocano, come oscuri fantasmi della mente che popolano di incubi gli ultimi momenti di vita.
È la notte tra il 3 e il 4 giugno 1798. Con la stesura dell’autobiografia ha esorcizzato la morte che sentiva sempre più prossima. È giunta l’ora, e deve respingere le insinuazioni, le accuse, le calunnie. Lo fa ricorrendo a citazioni della sua poderosa opera, di cui scorre le pagine contenute in una valigia, l’unica in grado di rappresentarlo come “avrebbe voluto essere se il personaggio non avesse vinto sulla persona”. La fama di seduttore che lo ha inseguito è limitante e falsa: egli si sente piuttosto un seduttore sedotto che godeva della felicità delle sue amanti, conquistate dalla sua personalità colta e raffinata “dicono che io sappia tutto sull’amore. S’ingannano. È l’amore che sa tutto di me”.
Le cinque dame continuano a scandire il tempo con le oscillazioni asincrone degli arti, illuminate o in penombra, nel seducente progetto luci di Nadia Baldi che tratteggia atmosfere sinistre delimitate da bianchi panneggi che fissano i labili confini tra realtà e sogno.
Nega la propria identità Casanova, volendo con essa negare le stereotipate definizioni che la credenza popolare gli ha affibbiato: avventuriero, libertino, alchimista, stregone, sacrilego della religione e del costume, poiché “l’idea che il mondo ha di Casanova non è lui!”.
Alle lascive seduzioni delle sue accusatrici, a tratti sovrapposte e cacofoniche, contrappone la lucida disamina del suo operato, rivendicando un unico ruolo, quello di scrittore “sono stato da sempre uno scrittore. Ho scritto al buio, anche col succo delle more, con le unghie. Ho scritto sui corpi delle femmine. Il personaggio si è mangiato lo scrittore”.
In un processo di autoanalisi scevera la propria identità, con l’asettico distacco di chi giudica qualcuno diverso da sé e, ristabilendo i giusti parametri di valutazione, lo riabilita “se fossi Casanova non sarei Casanova”.
La Straniera, la Nera, la Gialla, la Rossa, l’Azzurra (le ottime Marina Sorrenti, Franca Abategiovanni, Carmen Barbieri, Giulia Odori, Rossella Pugliese) incalzano, l’uomo obietta “Casanova non costrinse, non fu geloso… Vi ha divertito per un secolo e volete ucciderlo di follia in una notte”.
L’incisiva scrittura drammaturgica di Ruggero Cappuccio rende questo lavoro un’operazione di rielaborazione storica che disintegra il mito e ci restituisce l’uomo, potenziata dall’interpretazione di Herlitzka, attore capace di interiorizzare il personaggio che affronta, come in tutti i ruoli che ha sostenuto al cinema e in teatro. Cappuccio gli ha ritagliato addosso il testo attingendo alle opere di Casanova, dai teneri ricordi di bambino alle rocambolesche evasioni, dagli amori agli abbandoni, fino agli ultimi giorni, stanco ma non vinto “ho visto me stesso e sono ancora vivo”.
La regia di Nadia Baldi integra l’evanescenza onirica dell’ambientazione con l’ancoramento alla realtà storica e letteraria della drammaturgia, coadiuvata dal progetto scena di Mariangela Caggiani, i costumi di Carlo Poggioli, le acconciature di Desirèe Corridoni, le musiche di Marco Betta.
Se dopo aver assistito a questo spettacolo ricorderemo anche un solo grido di dolore che Giacono Casanova ci lancia, attraverso la voce di Herlitzka, anche per noi l’uomo comincerà a scardinare il mito.