Nicola Zavagli inventa una metafora dell’amore delle più asciutte e comunicative. Una casa di campagna, rifugio trascurato dalla frenesia cittadina, è sfondo e insieme alter ego di una perduta intimità, di un sentimento che fa acqua da tutte le parti. Beatrice Visibelli e Marco Natalucci sono una coppia di cinquantenni che si ritrovano a non saper stare più da soli, in due. Il lavoro lontano, la figlia oltre oceano. Mancano gli argomenti e la complicità, l’affiatamento e la sensualità in un rapporto che non è stato nutrito abbastanza per superare le difficoltà del tempo. L’amore – pare gridare la tragicommedia – è fatica e sacrificio, è saper rendersi ridicoli e offuscarsi secondo i bisogni dell’altro, saper bilanciare la dimensione dell’io con quella del noi, senza perdersi in pericolose soggezioni. È un lavoro quotidiano, che si sgretola facilmente quando “è tutto un rimandare” e che è capace come poche altre cose, che a noi piace chiamare passioni, di tirare fuori il lato più animalesco dell’essere umano, quello che ci rende massimi esponenti dell’arte vile e spontanea del rinfacciare: “Siamo bestie volgari, violente e pericolose”.
I protagonisti sono specchi lucidissimi della realtà attuale, e quanto più ci si riconosce in loro, tanto più amaramente si sorride di battute che paiono familiari alle nostre orecchie, magari soltanto perché strappate da una conversazione per strada. E la storia di oggi non ne vede tanti di personaggi disposti, con fatica, a rimettere insieme i cocci. Ci si separa, rivendicando un’autonomia che non sempre si è in grado di gestire. Non si sa più stare da soli in due e non si sa nemmeno più stare da soli in uno solo. Servono distrazioni, si diventa creativi, ci si butta a capofitto in nuove relazioni, attività, idee, finché non si capisce che il fervore non è di compagnia.
Qui l’amore talvolta si scopre aver lavorato anche da solo, talvolta si confonde con la pigra inerzia dell’abitudine. In un caso o nell’altro riesce a incastrare due metà non perfettamente combacianti, con ancora, forse, la capacità di riplasmarsi amanti, in virtù della necessità di sentirsi amati. Ancora una volta insieme, circondati dalle stesse mura.
La dinamica scenica segue il ritmo affannosamente crescente della tensione patetica, prima arrancata e sguaiata, poi ingenua e piacevolmente smodata. Una malinconica risata liberatrice svela la semplicità dello stare insieme spontaneo, del bisogno, silenziosamente urlato, di un amore banalmente ritenuto sottinteso per anni.
Era la nostra casa è un inno all’amore, un invito a prendersene cura, in una società in cui la confusione tra pubblico e privato, tra sincero e manifesto, mette alla prova le relazioni personali. È un appello a costruire salde fondamenta e tetti a prova di alluvioni. Ma è anche lo scontro senza esclusione di colpi tra un insegnante che non sa spiegare la propria vita e una laureata in Storia dell’Arte che non sa restaurare il rapporto con suo marito. È uno spaccato di vite spaccate, che lascia ai protagonisti la possibilità di ricostruirsi.