Un dovuto disprezzo nei confronti dell’umanità, che non capisce, non comprende l’arte, l’art pour l’art, che non ha l’animo raffinato, ha solo invidia e povertà, non apprezza la meraviglia e il piacere, ma preferisce essere solo spettatrice di questa squallida ed ipocrita realtà. Così Oscar Wilde ci introduce il suo pensiero attraverso la figura di Lord Henry. C’è poi Basil, il pittore dall’ideale fragile e romantico ma anche ambizioso, che ci ritrae Dorian Gray, un uomo imprigionato dal desiderio inconfessabile di restare giovane e bellissimo per l’eternità; desiderio che crea un sentore di disagio, di malessere interiore che cresce come un’edera tra le acrobazie sentimentali e la caduta morale del personaggio.
Per quanto l’ambientazione moderna possa rendere più difficile entrare nell’atmosfera inglese di fine Ottocento, l’aderenza dei dialoghi al testo originale ci ricorda che la fine ironia di Oscar Wilde è davvero irriducibile; un’opera spettacolare di un uomo che ha vissuto la propria vita come un’opera d’arte. Di fronte a paure e verità con cui la maggior parte di noi non vuole confrontarsi, l’essere passivi e talvolta ipocriti ci distoglie dal piacere di soddisfare i nostri desideri e le nostre passioni; Wilde ci sprona a quel coraggio di essere vivi e liberi, e a non permettere ai benpensanti di giudicarci. Ci strappa sempre un sorrisetto beffardo, e nell’aria aleggia un odore di cinismo che fa sentire coccolati; ne “Il ritratto di Dorian Gray” si avverte quel tipo di intelligenza artistica che rende gradevole anche il contenuto più scabroso, è forte e dolce come l’odore dei lillà.
Le scene, dalle luci molto moderne, soffuse, ci catapultano, accompagnate dalle splendide musiche di Wagner, Kusturica e Bregovi, in uno spazio gotico, a tratti quasi spettrale. Se quindi la leggerezza di Wilde a tratti sbiadisce, il rischio potrebbe essere quello di confondere estetismo con materialismo. A stupirci e ipnotizzarci sono anche le parrucche e i manichini presenti sul palco. Questa scelta registica sperimentale, non intacca la personalità dell’opera né compromette la buona riuscita della messinscena, ma tralascia in parte quel sostrato di romanticismo che sottende, anche nell’animo più cinico, quella ricerca della bellezza come senso vitale, come metodo intrinseco all’anima, che forse la macchia, ma la guida e la caratterizza; lo tralascia, ma lo rileva per contrasto. La regia è della creativa Annig Raimondi, che è presente anche in scena, assistita come regista da Carmen Chimenti e dalle scene e luci di Fulvio Michelazzi. Il resto del cast è formato da Maria Eugenia D‘Aquino e Riccardo Magherini, che hanno svolto un ottimo lavoro. La scelta degli attori è singolare (due donne nelle vesti di due uomini) a primo impatto lascia esterrefatti; ma infine, man mano che si entra nell’atmosfera, si rivela curiosa e suggerisce l’inevitabile universalità di alcune situazioni umane, evidenziando in particolar modo la comunanza dei sentimenti. D’altronde è tradizione la che la vanità sia donna. Ma Narciso è uomo. Rifugiamoci per novanta minuti nella dimora del nostro pittore e immaginiamo… Cosa saremmo disposti a fare per ciò che bramiamo ardentemente?
Giorgia Petani e Elena Tondo