Regia e drammaturgia: Emma DanteCon: Emma Dante, Salvatore D’Onofrio, Carmine Maringola, Federica Aloisio, Viola Carinci, Giusi Vicari e Serena GanciProduzione: Teatro Biondo di Palermo
——–
È capitato spesso di trovarsi al cospetto dell’enormità di un palcoscenico, visto nella sua nudità in lungo e in largo. Stavolta una cinquantina e più di luci e fari posizionati su tre file equidistanti, una fitta intelaiatura di corde e di funi e l’immenso fondale definiscono lo scheletro di quel corpo magico che è il teatro. Le sei quinte disposte tre da un lato e tre da un altro poggiano a terra e aspettano di levarsi in alto per incorniciare lo spazio della scena teatrale. Sarà perché dopo l’entrata delle tre ballerine/burattini Emma Dante sale sul palco dal corridoio in sala e recita un estratto dal canto omerico di Polifemo, che così com’è, quel palcoscenico pare una vera nave pronta a salpare. Perché, alle fine, nella riflessione metalinguistica, metaletteraria, metateatrale insita nel testo Io, nessuno e Polifemo della stessa Emma Dante, l’unione significato-significante – il “segno” dunque, – diventa manifesto visivamente nella messa in scena; Emma Dante sale e recita i versi dell’Odissea e con lo stesso foglio ne fa una barchetta di carta. La barchetta fluttua attraverso la coreografia delle danzatrici, burattini, ninfe e marinai sui generis al contempo che popolano questa nave. Dunque, siamo su questa nave immaginaria (ma, cos’è il teatro se non una nave nell’oceano dell’immaginazione, della coscienza e conoscenza che approda alle nostre menti?). Lo spazio totale viene suddiviso su due livellamenti orizzontali. Su quello superiore c’è la voce cantante dello spettacolo (Serena Ganci) che esegue sicule melodie mentre di sotto danzatrici e attori definiscono l’azione performativa.
Quest’impossibile intervista a Polifemo è un filo conduttore in cui Emma Dante sembra riflettere il rapporto con l’arte drammatica e gli elementi costituenti della sua stessa drammaturgia.
Emma intervista Polifemo perché questo mito è ancorato alla sua terra, alla Sicilia, ed autoironicamente ponendo in evidenza una stramba idea antropologica (il ciclope sarebbe una sorta di archetipo mafioso) si confronta con l’Emma narratrice di “rapsodie popolari”, indagatrice instancabile delle proprie origini.
Eppure, questa volta è lo stesso protagonista del mito che col suo unico punto di vista riesce a spiazzarla; Polifemo (il bravo Salvatore D’Onofrio) parla il dialetto napoletano negando la sua ubicazione fra gli scoglioni di Aci Trezza. Ce lo troviamo invece verso la fine, sul Vesuvio, e al cospetto della sua potenza, egli – ricordato dall’umanità come bruto ciclope, ghiotto di carne umana e simbolo della bestialità – rivendica il suo autentico equilibrio con la natura e la sua solitudine contro tutto ciò che si è detto sul suo conto.
Ma c’è anche Ulisse (Carmine Marignola), eroe-antieroe, la “maschera semantica e lessicale” che serve ad Emma Dante per trasformare luoghi comuni, convenzioni estetiche dell’arte, pilastri quindi della finzione scenica, in materia prima con la quale tessere la sua opera; anche Ulisse parla il napoletano perché, a suo dire, è la lingua degli imbroglioni e di chi parla d’amore, e di quale vernacolo appropriarsi se non di questo? Al cospetto di Polifemo è Nessuno, maschera e altra identità impossibile di Odisseo, per Emma Dante “trappola verbale”. La parola crea, la parola inganna, la parola uccide e condanna. Il rapporto Polifemo/Odisseo incarna la dicotomia fra natura e civiltà, istinto e intelletto. Ulisse è la bugia, la manomissione umana sulla natura ma, cos’è la letteratura, quindi ancora il Teatro, se non l’inventio bugiarda la cui labilità diviene paradossalmente ostacolo all’oblio e alla morte? Qual era il prezzo da pagare a Calipso in cambio della bellezza e vita eterne? La memoria, appunto, cioè oblio perpetuo con il quale Ulisse non sarebbe stato più Ulisse, non identità mitologica ma neanche quella semantica/lessicale, quel significante (la sola parola Ulisse) che ha investito per secoli e secoli tutta la cultura occidentale.
Un viaggio dentro la testa di Polifemo, orbo da millenni, è quello che compie Emma Dante sfidando la possibilità di creare forme performative con gli stessi elementi costituenti dell’arte teatrale e della narrazione letteraria.
I tre personaggi – vestiti con lo stesso abito, giacca, camicia e pantalone – delineano diversi livelli di analisi, intersecano fabula e metaletteratura, e così l’occhio di Polifemo, Ulisse, la grotta, la tela che Penelope tesse e “(s)tesse”, il suo velo nuziale, persino lo stesso palcoscenico che abbiamo di fronte, sono avvolti da sensi plurimi, contenitori e contenuti al contempo in un’unica grande scatola/nave che fluttua con leggerezza, così come lo sono i dialetti, vagliati attraverso un guizzo metalinguistico, elemento essenziale dei testi di Emma Dante.