Tratto da “Luther” di John Osborne, con riferimenti a Blissett e Bainton Progetto e regia: Antonio Piccolo e Giuseppe CerroneCon: Raffaele Ausiello, Sergio Del Prete, Aniello Mallardo, Alessandro Paschitto, Antonio Piccolo.Prod. Teatro in Fabula
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Una delle cose che colpisce leggendo di Teatro in fabula è la scelta dei testi non originali da rappresentare. Oltre a Le 95 tesi, il collettivo si era già confrontato con Schmitt, Maraini, Campanile, Paradivino e Cechov. autori non inflazionati e neanche semplici. A questo punto, il minimo per poter riuscire a scrivere un po’ del progetto di Antonio Piccolo e Giuseppe Cerrone era di curiosare fra le pagine del Luther di John Osborne, opera dalla quale è stato tratto lo spettacolo (con incursioni da Blissett e Bainton); essa ripercorre la storia di Martin Lutero dal momento in cui entra nell’Ordine Agostiniano sino alla conclusione della sua Riforma. Ciò che incuriosisce del testo è soprattutto, la spigolosa spiritualità del frate agostiniano fatta di aspri tormenti e sensi di colpa che sfociano in parossistiche autopunizioni e patologie. Per questo motivo impressiona positivamente come sulla scena del Piccolo Bellini una “sinergia geometrica” scandisca i movimenti e le voci dei confratelli di Lutero (Antonio Piccolo), a mo’ di coro liturgico e salmodico che accompagna i momenti della vestizione e della confessione collettiva. Spesso accade che una luce verticale ritorni durante tutto lo spettacolo, una luce che non dura molto, riflesso dell’agognato rapporto diretto con Dio, uno dei punti cruciali che lo spingeranno a disobbedire alla confessione cattolica. Verso il fondale, posizionato al centro, una pedana di legno funge da altare, segno permanente della prima messa da lui celebrata e che non riesce a portare a termine. Luce ed altare, dunque, due simboli che nello spazio semivuoto del palcoscenico giocano con una simmetria perfetta. Eppure al protagonista mancano segni tangibili della grazia di Dio. “Come posso avere giustificazione?” è la sua eterna domanda senza alcuna risposta la cui assenza si traduce in un’eterna espiazione di peccati in gran parte immaginari. Nel testo di Osborne colpisce una parte, mentre dialoga con il padre, in cui Lutero dice: “You wanted me to learn Latin, to be a Master of Arts, be a lawyer. All you want is me to justify you! Well, I can’t, and, what’s more, I won’t. I can’t even justify myself” (leggo in lingua originale), parole abbastanza taglienti che danno di Lutero un’immagine più controversa e profonda di come ce la siamo sempre figurata. “Giustificare” è anche la parola chiave della sua nuova teologia, il protestantesimo tedesco del XVI secolo, ma è anche ciò che Luther, durante tutto il primo atto di Osborne, cerca di fare con la sua intimità, la sua storia personale costellata di conflitti familiari e scissioni interiori che gli preludono di darsi qualsiasi risposta. Nella messa in scena di Teatro in fabula il ritmo cambia quando entra Teztel (inizio del secondo atto di Osborne), arcivescovo nonché venditore di indulgenze (Sergio del Prete). L’autocompiacente alto prelato ha una mise tutta mondana: occhiali da sole sgargianti, una sorta di frac aderente (a mo’ di abito da sacerdote), crocifisso al collo e vende le indulgenze con quel fare tipico delle telepromozioni di materassi o elettrodomestici con il quale si riserva di recitare il suo monologo. La trovata ha un piglio comico-grottesco, spiazza tra l’altro il pubblico oramai sintonizzato sull’atmosfera rarefatta da monastero delle prime scene. Si procede in questo senso, effemminati prelati che giocano a basket posti sul fondo eretti a simbolo della Chiesa di Roma, mentre Lutero ne affronta il legato ed il papa (Alessandro Paschitto e Raffaele Ausiello) in un dialogo che è scomposto in due piani temporali, in maniera da rappresentare l’episodio in sé e il flashback che permette di far passare l’incontro per la sua coscienza, ormai autore delle 95 tesi affisse a Wittenberg. Registri prosaico ed alto si alternano, esattamente come nel testo originale, esattamente come il frate parlava alle folle, non in latini, bensì in “volgare” mettendo insieme Cristo e i porci in un unico discorso.
Un Dio presente ed assente al contempo quello di Lutero, ben visibile solo nelle piaghe della fragilità umana tanto da non riuscire a coagulare all’interno della sua opera di rifondazione, la vocazione politica che le rivolte contadine hanno cercato di rinvenire in lui.
Eppure, come ci dice la bandiera tedesca che alla fine chiude lo spettacolo, Lutero resta un padre della lingua e di una nazione il cui valore, paradossalmente, si ascrive alla sfera civile e laica della Germania. Rispetto al testo originale in cui il conflitto col padre Hans appare avere peso maggiore sull’iter spirituale e morale di Lutero nonché sul finale, gli attori del Teatro in fabula terminano lo spettacolo con la battuta rivolta a Dio: “Credo, credo, io credo! Solo aiuta la mia incredulità!”, tangibile e inevitabile irriducibilità del dubbio.
In sala simpatici foglietti sullo stampo di quelli della messa dominicale, guidavano gli spettatori nelle fase storiche della Riforma luterana, segno, come del resto è la scelta dell’opera, del modo in cui il collettivo vuol porsi nei confronti di chi lo va a vedere.