Chicca della serata è Le chant du rossignol, balletto in un atto tratto da una fiaba di Hans Christian Andersen su musica Igor Stravinskij (siamo in epoca Sagra della Primavera) e coreografia di Lorca Massine (figlio di Léonide) che arriva sul palco a distanza di quasi cento anni dalla creazione. La storia di questo balletto, un progetto incompiuto di Serge Diaghilev e Léonide Massine fu in realtà lunga, travagliata e alquanto complessa e comincia quando Stravinskij realizzò la suite orchestrale nel 1917 su richiesta dei Diaghilev per i leggendari Ballets Russes. La storia dell’usignolo che con il suo canto salva l’imperatore della Cina doveva prendere vita attraverso le scene e i costumi eccezionali del futurista Fortunato Depero che aveva immaginato una colorata fiaba floreale come una Cina fantastica, una realtà magica e colorata. Le cose poi andarono diversamente perché le scene furono effettivamente affidate a Matisse (era il 1920 e con risultati del tutto diversi rispetto a Depero). Lorca Massine in pratica ha rielaborato un’essenziale coreografia ex novo basandosi sui principi del futurismo e sullo spartito musicale: la versione Depero-Stravinskij è stupefacente. Nei creazioni (conservate al MART di Rovereto) coloratissime di Depero i corpi spariscono nella plasticità dei costumi stessi (soprattutto nella parte superiore) che sembrano vivere di vita propria a favorire una sorta di movimenti meccanici, una vera delizia visiva. In scena fra le piramidi e i coni astratti della scenografia, la leggerezza della prima ballerina del Teatro dell’Opera Alessandra Amato (che si è alternata con Marianna Suriano ed Erika Gaudenzi) nel ruolo del leggiadro Rossignol, nel ruolo del Rossignol meccanico Annalisa Cianci (che si è alternata con Roberta Paparella e Giovanna Pisani).
Unico balletto futurista sopravvissuto, La chant du rossignol viene insolitamente associato per l’occasione ai Carmina Burana, capolavoro di Orff tratto dai testi poetici medievali dell’ XI e del XII secolo, che viene proposto nella creazione del 1995 di Micha Van Hoecke (ideato allora per il suo Ensamble). Anche visivamente accostati per contrasto a Depero, i Carmina Burana vivono dei bellissimi costumi dello stilista Emanuel Ungaro che ha inguainato i danzatori in liquidi e impalpabili abiti da sera, dalla capricciosa Fortuna in nero di Alessandra Amato alla Flora evanescente dell’étoile Gaia Straccamore, dallo Zefiro di Alessio Rezza al Febo di Manuel Paruccini, personaggi mitologici che scivolano in scena l’uno dopo l’altro osservati dalla presenza imponente del coro di bianco vestito. Le scene (realizzate da Ungaro e da Carlo Savi) sono di sapore cinematografico: lo sfondo è un cielo in video proiezione quasi minaccioso, mentre la scena possente diventa una sorta di finestra sui sogni nei quadri che si succedono l’uno dopo l’altro sotto lo sguardo severo del Coro imponente diretto da Roberto Gabbiani. E se era il senso fiabesco, filtrato attraverso la meccanica ritmica del futurismo, a rapire lo sguardo, è invece la liquidità dei costumi e un senso cinematografico innato della struttura scenica dei Carmina a catalizzare l’attenzione. Sul podio, direzione trascinante del maestro David Coleman alla guida dell’Orchestra del Teatro dell’Opera.