«Le loro storie sono così importanti che hanno bisogno di essere raccontate, in quanto, senza questi grandi artisti, non ci sarebbe stata Beyoncé, come nessuno dei miei colleghi. Sono stati i primi afro-americani ad essere passati sulla radio, molto prima degli artisti della Motown e, poi, ci sono cose che non sapevo proprio. Non sapevo che il rock and roll fosse arrivato dalla Chess Records. Non sapevo che i Rolling Stones, i Beatles e tutti gli altri, avessero copiato la loro musica. Ed è bello per loro ricevere, finalmente, quanto li è dovuto». (Beyoncé Knowles)
In questa intervista rilasciata nel 2008 a Usa Today, in occasione della presentazione del film “Cadillac Records”, Beyoncé ripercorre l’essenza del contributo fondamentale che i talenti della Chess Records (fondata da due fratelli di origine polacca) hanno avuto nello sviluppo del blues e del rock, mentre il jazz aveva già trovato la sua strada sino dagli venti del secolo scorso. Del resto, basta ascoltare questa incisione del 1945 di Big Joe Turner, dal titolo “Blues Around the Clock” , per rendersi conto che quelle note sono già quello che sarebbe stato poi chiamato rock and roll. Molti anni prima che esplodesse il “bianco” Bill Haley e la sua “Rock Around the Clock”, ritenuta la canzone originaria del rock and roll, scritta nel 1952 ed incisa due anni dopo. I bianchi che sdoganano note che, al pari della segregazione razziale, fluttuavano in un limbo recintato. Non c’è da stupirsi, dato che solo nel 1961, ad un secolo esatto dall’inizio della guerra civile americana che aveva come tema l’abolizione della schiavitù, ragazzi neri e bianchi poterono andare, insieme per la prima volta, nella stessa scuola. Ed è corretto che il braccio armato della Chess, la fu Arc Music, abbia fatto di tutto, selezionando, però, le mire di turno, affinché fossero riconosciuti i giusti meriti dell’ispirazione. Vi chiedo e mi chiedo, se sarebbe stato egualmente giusto controllare anche l’origine di quella magia. Risalendo all’indietro sino ad arrivare allo schiavo delle piantagioni che per primo, per esempio, ha imbracciato il “diddley bow” (strumento artigianale composto da un’unica corda tesa, su un asse di legno, suonata strusciandoci sopra il collo di una bottiglia di vetro. Da cui il metodo “bottle neck”, usato in epoca moderna), lamentandosi del suo stato di schiavitù, ricevendo e trasformando l’eredità degli spirituals del diciannovesimo secolo, lo stesso della guerra civile.
Il sottile confine tra ispirazione e contaminazione, il dubbio che quello che si trasforma possa diventare plagio, oppure no. Il dubbio di persone costrette a lasciare il proprio continente, l’Africa, per piantare anche le radici musicali, proprio come quelle di una pianta di cotone, in un’altra terra, a loro ostile, ancora, anche ai tempi nostri, che si bea di essere la più grande democrazia del mondo.
Quella stessa terra, gli Stati uniti, dove i Led Zeppelin stanno spopolando, siamo agli inizi del 1970, dopo il clamoroso successo del loro secondo album. Date su date a ritmo frenetico, ancora ignari delle molestie legali degli anni a venire, ancora alla ricerca della consacrazione sul suolo natio. Così, questi quattro spensierati ragazzi inglesi, rinunciano, ammorbidendo le ire del loro manager Peter Grant, a due strapagate date negli States per esibirsi, con un cachet di “sole” 20.000 sterline, al festival di Bath.
Tre ore di concerto, più cinque bis, di fronte a 200.000 spettatori e da quel momento in poi gli Zeps verranno considerati, dal pubblico britannico, alla pari dei Beatles e dei Rolling Stones. Concetto sancito e rafforzato dalla rivista musicale “Melody Maker” che pubblica un famoso articolo intitolato “Gli Zeppelin scavalcano i Beatles” con il quale annuncia la vittoria della band del dirigibile nel referendum, indetto tra i suoi lettori, sul migliore gruppo dell’anno. Titolo che per otto anni consecutivi era stato ad appannaggio esclusivo del quartetto di Liverpool. E la casa discografica preme per il terzo album.
L’album viene pubblicato nell’ottobre del 1970, ma tutto inizia ad aprile di quello stesso anno, quando il gruppo, sfiancato dalle ripetute tournée, si rifugia in un cottage del Galles, presso Bron-Yr-Aur. I primi ad arrivare in quella casa di pietra, ben lontana dall’essere il villone tipico delle rock star, sono Page e Plant, mentre Jones e Bonham preferiscono stare un po’ con le rispettive famiglie. L’intento, inizialmente, è quello di rilassarsi, spurgando le tossine del successo, come quello delle critiche, e delle fatiche accumulate. Ben presto diventerà invece la fucina di quello che i Led Zeppelin creeranno da lì in poi. La bucolica tranquillità del luogo li porta a guardarsi indietro, verso le sonorità del folk, attraverso il blues più classico e puro, proprio come anni prima, su quel barcone ormeggiato sul Tamigi. Nascono brani, o embrioni di essi, tracce che ritroveremo in questo album e in quelli successivi. Ma la vacanza finisce, ancora date, poi di nuovo relax, questa volta nella vecchia casa di campagna di Headley Grange, affittando e portandosi dietro lo studio mobile di registrazione dei Rolling Stones. Qui completano e registrano la maggior parte del materiale destinato al terzo album, per poi spostarsi, tra un concerto e l’altro battendo record su record di spettatori presenti, in vari studi di registrazione tra gli Stati Uniti e il Regno Unito. Il 5 ottobre “III” vede la luce, il punto di svolta della band che vuole affrancarsi, una volta per tutte, dalla riduttiva etichetta di un genere musicale, l’hard rock, frettolosamente affibbiatole dalla stampa di mezzo mondo, nonostante il blend di atmosfere contenuto anche nei primi due lavori. Il risultato è sorprendente, i Led Zeppelin smorzano ancora di più i toni elettrici, mantenendo comunque una notevole intensità, e presentando il lato B del disco addirittura in una versione quasi completamente acustica. Da questo nascerà, negli anni successivi, il fantastico set acustico nei loro concerti.
“III” è considerato uno dei capolavori del gruppo ma, all’epoca, la critica lo stroncò, arrivando ad accusare gli Zeps persino di essersi infiacchiti. Come si erano permessi di presentare un disco che non corrispondeva ai crismi decisi (da chi?) per combattere, per esempio, contro i Black Sabbath e la loro “Pharanoid”? Eppure qualche brano del nuovo album erano già stati presentati anche nel famoso concerto di Bath, e non si poteva nemmeno accusarli di qualche plagio. Ma del resto si sa che i quattro ragazzi, a quei tempi, non avevano la stampa specializzata dalla loro parte. Anche i fans, all’inizio, rimangono un po’ spiazzati, le vendite non raggiungono le vette del secondo album, ma piano, piano, “III” diventa la pietra miliare del gruppo, da quel momento nulla sarà più come prima nella musica dei Led Zeppelin e nel rock, ed avrà la sua consacrazione nell’album successivo.
Lato A:
1 – Immigrant Song (Page, Plant)
Quasi come a divertirsi con le parabole isteriche della critica, l’album si apre con il brano forse più duro mai scritto dai Led Zeppelin. Il vocalizzo iniziale di Plant diventa il biglietto da visita della band, la loro sigla di apertura, riconoscibile e riconosciuta anche dai non adepti. La chitarra di Page suona note violente, per un inno dedicato ai Vichinghi e alle loro ricerca di nuovi luoghi da esplorare e da conquistare: «Noi veniamo dalla terra del ghiaccio e della neve, dal sole di mezzanotte dove sgorgano le fonti calde. Il martello degli Dei guiderà le nostre navi su nuove terre».
2 – Friends (Page, Plant) / 3 – Celebration Day (Jones, Page, Plant)
Ancora una doppietta, tipica del missaggio dei Led Zeppelin, due brani indivisibili e uniti dal rombo del dirigibile ottenuto, da Jones, con il Moog. Il primo pezzo introduce la chitarra acustica di Jimmy Page (scandalo!…) e a quello che accadrà sul lato B. Per la cronaca si tratta di uno dei brani pensati e scritti a Bron-Yr-Aur e arrangiato da Jones, nonostante il suo nome non appaia tra i crediti. Il secondo è un rock solare e trascinante che prende ispirazione da New York, durante una delle loro tournée oltre oceano. In origine il brano doveva essere introdotto dalla batteria di Bonham, ma un tecnico distratto cancellò la registrazione, così la pausa tra i due brani fu riempita dal volo dello “Zeppelin”.
4 – Since I’ve Been Loving You (Jones, Page, Plant)
No, una volta non basta. Suvvia, chiudiamo gli occhi e clicchiamo ancora una volta, e un’altra ancora, sull’icona dell’altoparlante di questa autentica perla musicale. È stato definito uno dei migliori brani blues della storia, ed eseguito in presa diretta, dall’inizio alla fine, nello studio di registrazione. Se vi chiedete chi stia suonando le linee del basso, John Paul Jones è la risposta, che usa il pedale dei bassi del suo organo Hammond. Difficile scrivere, perché la sto ascoltando anche adesso e ogni parola diventa superflua ed inutile per un brano che, a chi piace “O’ Blues”, vale tutto l’album e anche di più.
5 – Out On the Tiles (Bonham, Page, Plant)
Dopo il solco numero quattro, quasi, quasi vado fuori e mi faccio qualche pinta. Ed proprio quello che accade anche sull’album. Il titolo cita il modo di dire britannico per intendere di uscire fuori e andare per bar, molto caro a Bonzo, che lo ripeteva in continuazione. Così Page ci costruisce sopra un rock spensierato.
Lato B:
1 – Gallows Pole (Traditional, arr. Page, Plant)
La rivisitazione di un brano folk perso nei secoli (“The Maid Freed from the Gallows”) apre il lato B, quello della discordia. Chi si sarebbe immaginato di sentire Jimmy Page che suona il banjo e John Paul Jones il mandolino?
«Non credo che il rumore certifichi l’intensità di una canzone. “Gallows”, anche se in gran parte acustica, la trovo intensa esattamente come “Whola Lotta Love”». (Jimmy Page)
Una delicatissima ballata acustica (sì va bene, i critici non si sono accorti che c’era dell’elettricità chitarristica in giro) con la quale sembra quasi di vedere, come fosse un miraggio, quello che accadrà l’anno successivo, nel 1971. Ma ancora non lo sapevano, i critici, i Led Zeppelin, sì.
3 – That’s the Way (Page, Plant)
«È stata scritta a Bron-Yr-Aur. In uno di quei giorni, dopo le nostre lunghe passeggiate, seduti dietro al cottage. Quello, in particolare, era stato un trekking faticoso, su e giù da un burrone. Ci sedemmo dietro la casa, avevo sempre la mia chitarra con me, suonai qualche nota e Robert cantò, subito, il primo verso». (Jimmy Page). Una passeggiata che porta richiami intensi dal loro lungo tour negli States. Sebbene il brano sia una ballata dolce e sognante, bellissima da suonare, il testo si riferisce anche all’atteggiamento tenuto dalla polizia americana contro le proteste della guerra in Vietnam e nel servizio d’ordine dei loro concerti: «I can’t believe what people saying, you’re gonna let your hair down. I’m satisfied to sit here working all day long. You’re in the darker side of town». Che inizi anche il set acustico
4 – Bron-Y-Aur Stomp (Jones, Page, Plant)
Canzone che prende il titolo dal famoso cottage, che dal gaelico si può tradurre in “petto d’oro”, posto a Gwynedd, un casolare senza elettricità e acqua corrente. Il brano si basa su una passeggiata di Plant con il suo border collie, dagli occhi azzurri, di nome Strider (altro nome spesso usato da Tolkien per indicare Aragorn), nei boschi attorno a Bron-Yr-Aur. Siccome non si può perdere Jones al contrabbasso, Bonham al coro, e alle nacchere, Plant e la chitarra acustica di Page, e nemmeno i “claps” del pubblico che vanno a tempo (del resto il concerto di Earl’s Court è di cinque anni dopo e, nel frattempo, i fans sono corsi ai ripari comprando a frotte le copie di “III”) eccola dal vivo con l’“acoustic set” . Va da sé che, se un giorno ne avrò la fortuna, il mio cane, maschio, si chiamerà Strider.
5 – Hats Off to (Roy) Harper (Traditional, arr. Charles Obscure)
Suonata e cantata con lo stile delle origini del blues, il brano è un tributo (hats off è il gesto di lanciare I cappelli in aria in segno di urrà) dedicato al folk singer, ancora in attività, Roy Harper e all’influenza dei bluesman americani dal 1930 al 1970. L’arrangiamento è fatto da un burlone alla chitarra, Jimmy Page, che sceglie questo pseudonimo forse solo per spiazzare la critica. Il pezzo è un medley di frammenti di note e testi blues, compreso “Shake ‘Em on Down” di Bukka White.
Dedicata a Pino.
– continua –