Se si vuole godere la sublime scrittura di Shakespeare bisogna leggere le sue opere. Solo leggendo si ha la possibilità di godere fino in fondo la sua poetica, le riflessioni, i suoi racconti spesso complessi. Solo leggendo si ha la possibilità di ritornare sulla pagina appena sfogliata per approfondire concetti o rinnovare emozioni. E la lettura stimola la creatività che ci consente di vestire i panni degli attori, di scandirne i tempi, le pause, i gesti, di curare i costumi, le scene, di essere il regista nel ricordo commosso del grande Luca Ronconi.
Queste considerazioni sono il frutto di quel Re Lear visto ieri sera al Piccolo protagonista Michele Placido che, con Francesco Manetti, cura anche la regia. Spettacolo sicuramente dignitoso malgrado alcuni eccessi che sono parte della riscrittura in chiave moderna di Placido la cui lettura del testo è però filologicamente corretta. Mi riferisco al gesto dell’ombrello del perfido Edmund e l’interazione (per fortuna unica) con la platea per catturane la complicità, il grottesco rap del Matto (il fool caro a Shakespeare), la tenuta sadomaso delle sorelle Gonerill e Regan che si esibiscono in palpeggiamenti e amplessi con il conteso Edmund, la scena da grand guignol (o per apparire moderni splatter) del cruento accecamento di Gloucester con schizzi di sangue tutt’intorno.
L’opera narra la storia del vecchio Lear, re di Britannia che, volendo dividere il suo regno tra le tre figlie, Gonerill, Regan e Cordelia, richiede loro in cambio una pubblica dichiarazione di amore. La riservata Cordelia, la preferita, sostiene di amare il padre né più né meno di quanto si convenga a differenza delle sorelle che ipocritamente giurano che il padre è l’unico affetto della loro vita. Il re, deluso dalle sue parole, disereda la giovane consegnando il regno alle due sorelle. Così il regno di Britannia viene diviso fra Regan e Gonerill. Lear conserva solo il privilegio di poter soggiornare a turno dalle figlie con il suo seguito di cento cavalieri. Ma ben presto le due figlie gettano la maschera e si rivelano intolleranti nei confronti del padre che non hanno mai amato. Lear, spogliato di tutti i suoi averi, vaga sull’orlo della pazzia in mezzo alla foresta insieme al Matto di corte e a Kent, suo fedele consigliere. Collateralmente alle disavventure di Lear, Shakespeare sviluppa la storia del conte di Gloucester e dei figli Edmund ed Edgard. Il primo, in realtà figliastro, abietto e malvagio calunnia il fratello e, con false prove convince il padre a diseredare e maledire Edgard, il figlio prediletto che fugge da quell’inferno per vivere nella foresta in solitaria miseria nudo e ferito che da allora sarà conosciuto come Tom, un povero pazzo. Ma un giorno il padre al quale sono stati estirpati gli occhi nel suo vagabondare incontra il figlio che con uno stratagemma gli evita il suicidio e, svelando la sua identità, lo riconcilia con la vita. Ma la forte emozione gli stronca il cuore. Verrà poi il giorno della vendetta: Edgard nel corso di un duello uccide Edmund al quale Shakespeare concede alla fine il beneficio della catarsi. Intanto a Dover, sbarca l’esercito francese guidato da Cordelia che vuole salvare il padre e rimetterlo a capo del regno, ma i Francesi vengono sconfitti e Cordelia uccisa. Per il dolore di aver perso quell’unica figlia che lo amava Lear, finalmente libero della sua cecità metaforica, muore.
Suggestiva scena finale. Intorno al corpo di Cordelia si avvicinano una a una tutte le persone morte nella tragedia che una luce da dietro le fa sembrare ombre (che in verità sono). Unico sopravissuto Edgard le cui parole chiudono la tragedia: «A noi spetta accettare il peso di questo tempo triste… Dobbiamo dire quello che sentiamo e non dire quello che conviene”.
“Re Lear” è un viaggio nella pazzia che Shakespeare rappresenta per raccontare i percorsi dell’uomo nelle intricate vie della vita con tutte le ambiguità, i dolori, le gioie e le crudeltà di cui è lastricata. Amore e odio, speranza e sgomento, si fondono in un’armonia difficilmente districabile. Si tratta di un grandissimo affresco, con figure memorabili, come quella del buffone, tipico personaggio shakespeariano. Il Bardo non mette in scena, come tanti vedono, lo scontro generazionale, l’incapacità di dialogo fra padri e figli, ma piuttosto la cecità (frutto più d’ingenuità che di protervia) dei padri e l’ipocrisia e la malvagità dei figli. Il capolavoro non perde di attualità perché rispecchia, estremizzandola, la perversa naturale malvagità dell’uomo, la sua inestinguibile sete di potere.
La scenografia, curata da Carmelo Giammello, è un elemento molto interessante dello spettacolo. Materiali sparsi che richiamano un sito di archeologia industriale, distruzioni postbelliche, residui di icone di un tempo: Lenin, Kennedy, Hittler, Bin Laden, la regina Elisabetta, un’aquila romana, una grande corona in ferro rottamata a significare la fine di un regno (quello di Lear). Tutti simboli di un mondo in rovinosa caduta, di valori perduti, di scenari morali in disfacimento.
L’ottima interpretazione di Michele Placido non esce dai moduli consueti del furioso ingiusto accanimento, dei soprassalti della dignità offesa, dell’inconsapevolezza senile e di una memoria intermittente che si accende e si smarrisce nelle impervie vie della mente. Accanto a lui il suo bizzarro doppio (interpretato dal suo giovane figlio) il bravo Brenno Placido. Rimarchevoli l’ottima prova d’attore di Edgard (Francesco Bonomo), lo sfrontato cinismo di Edmund (Giulio Forges Davanzati), la dolorosa intensità del conte di Gloucester (Peppe Bisogno), di Kent (Francesco Biscione) e ancora Alessandro Parise, Mauro Racanati, Bernardo Bruno, Gerado D’Angelo. Se la cavano dignitosamente nella figurazione della cupidigia di potere e della sensualità le tre sorelle (Federica Vincenti, Marta Nuti, Maria Chiara Augenti). Belli i costumi di Daniele Gelsi, funzionali le musiche originali di Luca D’Alberto e il disegno luci di Giuseppe Filipponio.