Importanti i dati biografici di Amélie Nothomb (Kobe/Giappone 1967), autrice del romanzo Mercurio, per comprendere gli aspetti salienti della sua particolare poetica – caratterizzata da storie anche improbabili sfumate di tragicità e durezza con personaggi fuori dagli schemi – da cui è scaturito il testo portato in scena con abile coraggio dal regista Corrado d’Elia che ne ha curato anche progetto e adattamento.
Figlia di un diplomatico belga, seguendo la famiglia la scrittrice trascorre infanzia e giovinezza in Asia e America raccontate insieme all’anoressia di cui ha sofferto e al profondo rapporto con la sorella in Biografia della fame. Tornata a 21 anni in Giappone, terra da lei amatissima, ha un’esperienza negativa e deludente che descrive in uno dei suoi romanzi: allo scrivere si dedica da quando ha 17 anni e inizia a pubblicare da esordiente a 25 tanto da creare intorno a sé meraviglia per la giovane età, per l’alone di eccentricità dei suoi abiti neri, degli ampi cappelli dalla foggia a tubo, dello scrivere a mano… e per una produzione straordinaria di romanzi che le hanno valso il moltiplicarsi esponenziale di riconoscimenti, successi e premi e una fama dilatatasi a macchia d’olio.
Mercurio racconta una storia ai limiti del surreale ambientata su un’isola (raggiungibile solamente con la barca da Nodo, una località sulla terraferma) il cui nome Morte Frontiere induce di per sé un guizzo conturbante: su di essa sorge un singolare castello con finestre alte e un’infinità di cornici vuote che evidenziano l’atmosfera sempre più delirante creata da un anziano capitano morbosamente innamorato di Azel, una giovane fanciulla, salvata da un evento traumatico, che si nega e a cui si nega la possibilità di osservare il proprio volto in qualsiasi superficie riflettente.
Sorveglianza stretta e controlli accurati rendono praticamente inaccessibile questa fortezza apparentemente dorata, un carcere in cui la giovane è segregata dal legame di riconoscenza e dalla paura del suo essere sfigurata, elementi che creano una gratitudine affettiva messa in crisi dalle aborrite pratiche del capitano.
A turbare il fragile equilibrio alcuni disturbi di salute della giovane – tormentata dalla palese dicotomia interiore e da una solitudine di circa un lustro combattuta con la lettura – per la quale viene richiesto l’intervento di un’infermiera. Françoise è un’abile professionista che riesce a dimostrarsi fine psicologa: malgrado le sia vietato con minacce di fare domande, coglie l’esistenza di una serie di segreti e, invece di chiedere aiuto nel mondo ‘civile’, pensa di risolverli da sola.
Mal gliene incoglie perché la vicenda si complica e con un guizzo creativo l’autrice non offre una sola soluzione, ma ne predispone due rendendo il sorpreso spettatore completamente spiazzato dall’enigma che, invece di dipanarsi, si aggroviglia diventando un labirinto.
Tale clima straniante è ben reso dalla regia attraverso suggestioni cinematografiche come il continuo apparire e scomparire della luce, le variazioni cromatiche e alcune voci misteriose che simulano strane presenze o giochi della coscienza. In tale ambiente si muovono con perfetta padronanza tre ottimi attori (ben guidati dalla mano precisa, attenta, equilibrata e invisibile di d’Elia) capaci di porgere con eleganza dialoghi serrati e di rendere affascinante e coinvolgente l’incredibile.